giovedì 10 agosto 2017
La crisi della Corea del Nord continua a scaldare questa estate del 2017. Dopo gli ultimi test missilistici vietati dall’Onu, sono arrivate le sanzioni, stavolta votate anche dalla Cina, in grado di far perdere 1 miliardo all’anno all’export nordcoreano. La risposta è arrivata prontamente, con ampio uso di retorica bellicista. Kim Jong-un ha definito le sanzioni, una “grave violazione della sovranità nazionale” nordcoreana. Ed è tornato a minacciare l’America, che “pagherà a caro prezzo” la sua politica. Poi è stata la volta del presidente Usa, Donald Trump, che ha affidato a Twitter il suo solito pensiero politicamente scorretto: se la Corea del Nord continuerà a minacciare gli Usa, dovrà affrontare una tempesta di “fuoco e furia” come non se n’è mai viste nella storia. Infine la laconica contro-minaccia nordcoreana: possiamo colpire Guam. Cioè una delle principali basi statunitensi nel Pacifico.
Al di là della retorica, quanto è probabile che scoppi realmente una guerra in Corea? Le probabilità sono ancora molto basse. Primo: il programma nucleare e missilistico nordcoreano è un lavoro in corso. A luglio sono stati testati due nuovi missili che, secondo le informazioni fornite dal regime di Pyongyang, potrebbero anche raggiungere il territorio statunitense (Hawaii e Alaska, in particolar modo). Tuttavia, dal test allo schieramento di un’arma funzionante, il percorso è ancora lungo. Fonti di intelligence di Tokyo affermano che il programma nucleare sia molto più avanzato di quanto non si stimasse negli anni scorsi. Attualmente i nordcoreani sono in grado di miniaturizzare i loro ordigni nucleari, tanto da poterli inserire nelle testate dei missili intercontinentali. L’acquisizione della capacità di colpire gli Usa, per la Corea del Nord, dunque, è solo una questione di tempo. Non è più in discussione. Ma occorrono anni, non mesi e neppure giorni. Quanto a Guam, invece, i nordcoreani sarebbero in grado di colpire la base statunitense già da adesso. Quindi la minaccia lanciata ieri è reale?
Anche ammesso che i nordcoreani abbiano la capacità di colpire Guam, quante probabilità ci sono che lo vogliano fare realmente? Per rassicurare i militari americani di stanza sulla remota isola e gli abitanti locali, il segretario di Stato Rex Tillerson si è recato sul posto. Ha assicurato che non c’è alcun segno di pericolo imminente. Lo dice sulla base dell’intelligence raccolta, non è solo una frase di circostanza. Dunque la minaccia di Kim dovrebbe essere solo un modo per flettere i muscoli e non un avvertimento concreto. Anche perché, una volta colpita Guam, cosa se ne farebbe? Non sarebbe certo l’equivalente di una Pearl Harbor nordcoreana (e lo stesso attacco giapponese a Pearl Harbor, quello del 1941, si è poi rivelato essere una mossa tanto azzardata quanto perdente). Gli americani conserverebbero intatte le altre basi del Pacifico per lanciare la loro risposta devastatrice.
Quale è allora la giusta chiave di lettura delle dichiarazioni eclatanti di Kim Jong-un? Che Trump ha colpito nel segno. Dopo otto anni di amministrazione Obama, che non aveva fatto nulla in concreto per fermare il programma nucleare nordcoreano, Trump è riuscito a mettere la Cina contro la Corea del Nord. Cosa abbia chiesto in cambio Pechino, lo scopriremo nei prossimi mesi o anni. Sicuramente, già da ora, Trump non parla più della Cina come di un manipolatore di valuta e, su questo fronte, non chiede più sanzioni contro di essa, come invece aveva promesso di fare in campagna elettorale. Questa potrebbe essere una prima concessione. Poi ci sono tanti altri dossier aperti: Taiwan (che Trump sostiene, più dei suoi predecessori) e le numerose isole contese, come le Senkaku, le Spratley e le Paracels su cui gli Usa stendono la loro protezione a nome degli alleati locali. Le prossime mosse della partita Usa-Cina nel Pacifico ci spiegheranno che cosa è stato scambiato. Ma intanto la Corea del Nord è isolata. E per questo Kim urla e minaccia incubi atomici.
di Stefano Magni