Ora Macron pensi ai grognards

giovedì 11 maggio 2017


Le note dell’Inno alla Gioia di Ludwig van Beethoven s’accoppiano a quelle della Marsigliese davanti al Louvre per celebrare la vittoria di Emmanuel Macron (col 66 per cento dei suffragi) su Marine Le Pen, inchiodata al 34 per cento; comunque una percentuale che il Fronte Nazionale non aveva mai raggiunto prima, e che potrebbe di qui a non molto fruttare a quel partito (con o senza il cambio di nome che la sua capa sembra ora proporre) un bel numero di seggi all’Assemblea nazionale, la Camera dei deputati del Parlamento francese.

La Le Pen ha riconosciuto subito la vittoria di Macron, ma celebrato lo stesso questo risultato, alle note solo della Marsigliese. L’inno europeo e francese a una festa danno il tono della musica che s’è suonata in una e nell’altra campagna elettorale: europeismo contro sovranismo, e ha vinto l’europeismo. È la seconda volta, nella Quinta Repubblica instaurata dal generale Charles De Gaulle, così avverso al disegno supernazionale di Jean Monnet in nome di una sua Europa delle Patrie, a divenire presidente un esplicito europeista. Il primo fu un altro che fece una scelta esplicitamente liberale: Valéry Giscard d’Estaing. Entrambi vengono fuori dalla Scuola nazionale d’amministrazione, che prepara la classe eletta francese e si rileva assicurarne il ricambio, secondo uno schema che sarebbe andato molto a genio al Vilfredo Pareto o Gaetano Mosca. La differenza sta nel fatto che Valéry Giscard d’Estaing evolse le sue visioni liberali da un conservatorismo illuminato, Emmanuel Macron fu socialista e c’ha ripensato. All’influenza della presidenza giscardiana dobbiamo l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, già prevista come possibilità dai Trattati di Roma voluti nel 1957 da Gaetano Martino, ma non attuata sino allora. È da quella decisione che, molto lentamente ed ancora in modo insoddisfacente, prima le Comunità europee poi l’Unione europea e le sue politiche sono diventate oggetto di confronto tra i partiti, ed in un certo senso lo scontro attuale tra sovranisti ed europeisti ne è anch’esso figlio.

In Francia, prima ancora in Olanda, in Austria e in Spagna, hanno per ora vinto gli europeisti, e posto in un cantuccio i nazionalisti ungheresi e polacchi. Anche gli europeisti, tuttavia, si ripropongono cambiamenti d’indirizzo nelle politiche dell’Unione. Costoro vogliono contrastare i malumori che fomentano i sentimenti antieuropei di giovani disoccupati, borghesi in via di proletarizzazione, sconvolti da un’immigrazione che, cifre alla mano, è meno invadente di quanto la gente percepisce, ma innesca timori di sconvolgimenti nei costumi acquisiti in secoli; rispondere alle reazioni degli spaventati dagli attacchi dell’integralismo islamico. Tutto questo è giusto e và bene, se ricondotto a misure comunque rispettose dei diritti di tutti gli esseri umani; ma comporta, però, un maggiore interventismo delle politiche supernazionali.

Quando Valéry Giscard d’Estaing si batté per l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, lo fece in quanto l’intersezione fra politiche comunitarie integrate e ad esempio la politica estera, saldamente nella sovranità degli Stati membri, si svelò così pregnante che fu necessario istituzionalizzare i vertici tra i Capi di Stato e di governo degli Stati membri nel tentativo, non sempre riuscito, di coordinare queste loro politiche nazionali, ed allora si istituzionalizzò il Consiglio europeo. Con le elezioni al Parlamento europeo, Giscard volle controbilanciare il potere della negoziazione intergovernativa, col rafforzamento di una rappresentanza popolare europea, non nazionale, per evitare che il processo d’integrazione unitario si sciogliesse in un mero e stonato concerto internazionale, alla Congresso di Vienna. Oggi si corre il rischio che la semplice riforma in senso liberale delle politiche dell’Unione europea non basti, mentre il confronto nel Mediterraneo, in Africa e nel vicino Oriente, e con la Russia di Vladimir Putin, Dio ci scampi un domani con la Cina popolosa di Pechino, ha bisogno di essere presidiato da un reale strumento militare. Ciò pone, obbiettivamente, fuori dai giochi delle istituzioni europee, che ne sono di fatto prive. Ben lo sa la Francia, visto che la Legione Straniera è impegnata in Africa oggi più che mai, e il fallimento catastrofico della politica francese in Libia mostra che gli Stati membri dell’Unione europea, se agiscono da soli ed in ordine sparso, non vanno da nessuna parte e provocano solo danni incommensurabili, e per lunghi anni irrimediabili.

L’Europa corre il rischio di sparire nel non essere, se non si costruisce una difesa europea, con divisioni e forze aereonavali sotto una catena di comando supernazionale, col vertice operativo nello stato maggiore dell’Unione e non altrove, e sotto la responsabilità politica della Commissione, che è controllata dal Parlamento europeo. E i cittadini di sempre non s’affezionano a una moneta, ma a una bandiera sì, eccome, anche se sono brontoloni, grognards, come lo seppe un italiano che fece carriera nell’esercito francese: Napoleone Bonaparte. Quanto alla Patria avita del suddetto, l’Italia, da Egli per primo costituita nella sua parte settentrionale a Regno, nel 1805, il timore che l’attuale resti tagliata fuori dal risorgere di un asse gallo-germanico può essere superato solo coll’iniziativa politica, col buttarcisi in mezzo. In fondo, la Ceca nacque per risolvere la questione franco-tedesca in parte all’origine delle due guerra mondiali, il controllo della produzione carbosiderurgica della Ruhr, ponendola sotto un’Alta Autorità supernazionale; l’Italia non ebbe allora una grande produzione di carbone ed acciaio, ma con quel poco s’associò, e per questo fu tra i primi fondatori di quanto è oggi l’Unione europea. Se si tratta di una difesa comune, l’Italia è il molo nel Mediterraneo, la frontiera più rilevante del conflitto; tanto la legittimerebbe a battere sul tempo i gallo-germanici e fare lei una proposta agli altri Stati membri in tema. Tanto più che nel quadro istituzionale dell’Unione la responsabilità in materia è dell’Alto Rappresentante, che adesso è Federica Mogherini.


di Riccardo Scarpa