Usa, Nord Corea e Iran: isolazionismo frainteso

sabato 22 aprile 2017


Chi ha assistito alle elezioni americane dall’Italia aveva l’idea che Donald Trump si ritirasse dal mondo. Era una speranza per chi faceva il tifo per lui e al tempo stesso un incubo per chi sosteneva la candidatura di Hillary Clinton. Chi pensava a un immediato ritiro americano dalle basi d’oltremare e a un accordo strategico fra Usa e Russia per ridisegnare le rispettive sfere di influenza, non aveva fatto i conti con la storia dell’isolazionismo americano. L’isolazionismo, teorizzato dai padri fondatori, non si è mai tradotto in una politica pacifista, neppure nella mera difesa di confini territoriali (che in una terra da colonizzare come era l’America dei padri fondatori, non esistevano neppure, per lo meno non nel senso europeo del termine). Gli Stati Uniti, che sin dalle origini hanno difeso i loro interessi in mare, si sono sempre mossi all’estero per proteggere i loro commerci, anche colpendo per primi. Già nel 1802, in difesa del commercio navale dai pirati berberi, hanno attaccato il nemico in casa, in Nord Africa. E allora, alla Casa Bianca, c’era Thomas Jefferson, uno dei primi teorici dell’isolazionismo.

L’isolazionismo, così come il principio contemporaneo dell’America First, muove da alcuni semplici presupposti: non devono esserci ingerenze europee (ora anche asiatiche) sul continente americano, la sicurezza dei cittadini statunitensi viene prima di quella degli alleati, la sicurezza dei cittadini statunitensi e alleati viene prima di qualunque causa internazionale, le alleanze non sono mai permanenti e si basano su vantaggi reciproci. Tenendo ben presenti questi principi, è assolutamente normale che il presidente Trump alzi il livello di scontro con l’Iran e con la Corea del Nord a livelli inimmaginabili ai tempi del suo predecessore Barack Obama. L’ex presidente democratico era un internazionalista autentico. Anteponeva, alla sicurezza dei cittadini americani, le “necessità” dell’equilibrio internazionale.

Per cercare di disinnescare il conflitto mediorientale e la lunga crisi nel Golfo, Obama aveva vantato come un successo un accordo sul nucleare iraniano, pur sapendo che con quello stesso compromesso l’Iran avrebbe potuto comunque dotarsi dell’arma atomica. Mettendoci dieci anni in più, magari, ma avrebbe potuto comunque dotarsene. Da un punto di vista della sicurezza dei cittadini americani e dei loro principali alleati locali, gli israeliani, l’accordo con l’Iran è un compromesso al ribasso, quasi una scommessa con la morte. Dal punto di vista diplomatico, invece, nel suo genere era un capolavoro: perché permetteva di sbloccare tante altre “agende”, come il negoziato con la Russia (primo protettore e sponsor dell’Iran) e la soluzione politica della guerra in Siria (in cui gli iraniani e i russi fanno tuttora la parte del leone). Trump, prima ancora di essere eletto, ha invece promesso di mandare in fumo l’accordo con l’Iran e il suo segretario di Stato, Rex Tillerson, finora sta mantenendo la promessa, provocando sconcerto e indignazione fra gli osservatori internazionali. La sua logica: prima viene la sicurezza degli americani. E l’Iran può minacciarla molto concretamente, specie se riuscisse a dotarsi dell’arma nucleare. Poi viene la sicurezza degli alleati regionali. E Israele è già direttamente sotto il tiro dei missili iraniani: se Teheran avesse l’atomica, Gerusalemme e Tel Aviv sarebbero sotto scacco. Non importano le conseguenze diplomatiche di medio e lungo periodo, dunque, ma prima di tutto importa la sicurezza.

Questa stessa logica permette di leggere con più lucidità anche la crisi in Corea del Nord. Barack Obama, sempre per salvaguardare gli equilibri internazionali, aveva affidato il dossier Corea interamente alla Cina. Al di là delle consuete (e doverose) manifestazioni di forza militare, con esercitazioni periodiche terrestri e navali, l’amministrazione Obama ha, di fatto, tollerato una Corea del Nord nucleare. Perché era, appunto, una questione cinese. Trump ha invece invertito le priorità. Proprio perché ritiene (e non a torto, ormai) che l’atomica nordcoreana sia, a tutti gli effetti, una minaccia immediata per i cittadini americani, ha prima destabilizzato il dialogo con la Cina (con minacce di guerra commerciale e poi con l’apertura di un inedito dialogo diretto con la presidente di Taiwan), poi l’ha posta di fronte all’aut aut: “Contenete il regime di Pyongyang o ci dovremo pensare noi”. All’impegno concreto e visibile di Pechino per contenere Pyongyang (interruzione dei voli e delle forniture), è seguita una distensione fra Cina e Usa. Nel frattempo, nella crisi della Corea del Nord, l’opzione dell’intervento militare statunitense è tornata ad essere presa seriamente in considerazione.

Ma non si tratta di una presunta “inversione di rotta”: questa politica è semmai l’isolazionismo di Trump portato alle sue logiche conseguenze.


di Stefano Magni