venerdì 7 aprile 2017
“La Russia ha una lunga storia segnata da guerre, violenze, carestie, eccidi, congiure, rivoluzioni e terrore”. E l’attentato di pochi giorni fa a San Pietroburgo ce lo ha ricordato ancora una volta. Riccardo Mario Cucciolla è esperto di spazio post-sovietico e insegna Storia contemporanea all’Università Luiss “Guido Carli”. Risponde alle nostre domande su quanto accaduto in Russia: le morti e la paura. Appunto. Da dove viene e dove è diretto l’integralismo islamico e come, la leadership di Vladimir Putin, risponderà a questa ennesima minaccia jihadista. Un’ondata di morte che vista da Mosca ha due dimensioni: “Una ‘esterna’ che riguarda l’Asia Centrale, la seconda ‘interna’ che riguarda il Caucaso settentrionale”.
Quattordici morti a San Pietroburgo il 2 aprile. Ancora una volta la Russia colpita dal terrorismo...
La Russia ha una lunga storia segnata da guerre, violenze, carestie, eccidi, congiure, rivoluzioni e terrore. Lo stesso sistema staliniano era basato sul terrore di stato che veniva giustificato a livello ideologico come strumento necessario alla realizzazione della rivoluzione. Se invece intendiamo il terrorismo nella sua accezione antisistemica e dimostrativa contro la popolazione civile e le istituzioni, abbiamo una lista di casi che hanno insanguinato il Paese. Già in epoca zarista, gli attacchi contro le istituzioni arrivarono all’assassinio dello Zar Alessandro II nel 1881 e continuarono anche in epoca sovietica, seppur in un clima di maggiore segretezza, per riesplodere con maggior ferocia e nel corso degli anni Novanta e 2000 quando il terrorismo di matrice jihadista ha infiammato il Paese.
Dove nasce l’incubo jihadista per la Russia?
Ci sono due principali contesti attraverso i quali possiamo leggere il crescente jihadismo nello spazio post-sovietico e che sono inesorabilmente legati al contesto socio-culturale e alla natura “coloniale” dei precedenti regimi russo-sovietici: uno è oramai “esterno” e riguarda l’Asia Centrale, il secondo è “interno” e riguarda il Caucaso settentrionale.
Il responsabile dell’attentato proviene probabilmente dall’Asia Centrale. Le ex repubbliche sovietiche sono incubatori di destabilizzazione? Il Kirghizistan è un Paese radicale?
Nell’area post-sovietica, il primo contesto di radicalizzazione è esterno alla Russia e riguarda l’Asia Centrale, regione sovietica a maggioranza musulmana e attualmente divisa in cinque stati indipendenti, dove l’islamismo radicale di stampo salafita è risorto nel corso degli anni ‘80. Infatti, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il ritorno dei veterani radicalizzati, le maggiori aperture in termini di libertà religiose nel corso della glasnost, la crisi economica e il contesto di instabilità politica dell’ultimo periodo sovietico hanno visto l’affermazione di diversi gruppi che si richiamavano alla lotta armata e l’affermazione della Sharia nell’ex Turkestan. Le violenze nella valle di Ferghana (1989-1990) e la guerra civile in Tagikistan (1992-1997) testimoniano un contesto di instabilità, violenza e repressione nel quale la Russia è intervenuta in supporto ai regimi locali che, con la scusa di combattere il terrorismo, si sbarazzavano degli oppositori politici e consolidavano i loro regimi autoritari. Gli islamisti vengono tuttora combattuti dai regimi centroasiatici e molte organizzazioni sono state smantellate o esiliate nel vicino Afghanistan o in altri contesti dove lo stato è più debole. Il Kirghizistan è il Paese con maggiori aperture sul piano economico e politico dell’intera Asia Centrale ma è fortemente instabile e la presenza dello stato risulta spesso inconsistente. Da punto di vista culturale, la tradizione islamica in Asia Centrale si rifà prevalentemente alla scuola hanafita (moderata e tollerante) e risente dei decenni di ateismo di stato sovietico. Quando sentiamo parlare di individui centroasiatici radicalizzati dobbiamo considerarli come un’eccezione che allo stesso tempo riflette il livello di disagio sociale di ampie fasce di popolazione che sono state escluse dalla globalizzazione e ricercano, o reinventano, un’identità post-sovietica nell’Islam. La Russia, che annualmente accoglie migliaia di lavoratori stagionali e studenti provenienti dall’Asia Centrale, teme possibili infiltrazioni e legami con le comunità islamiche della federazione.
Come si è evoluto il terrorismo in Russia?
L’attentato di pochi giorni fa ci ha ulteriormente dimostrato come il terrorismo in Russia non sia identificabile come esclusivamente “ceceno”. Come abbiamo visto, il terrorismo jihadista è divenuto una conseguenza - e non una causa - della guerra in Cecenia costituendo un fronte oramai svuotato dalla componente nazionalista/separatista. A partire dai primi anni 2000, con l’evoluzione del fronte ceceno nell’Emirato del Caucaso e l’affiliazione alle maggiori reti di jihadismo transnazionale - al-Qaeda prima e Isis dopo - gli attacchi contro le istituzioni militari (caserme, stazioni di polizia) e soprattutto civili sono diventati sempre più simbolici e mediaticamente rilevanti. Ricordiamo tristemente la crisi degli ostaggi al teatro Dubrovka nell’ottobre 2002, culminata con l’irruzione delle forze speciali e un bilancio di 130 morti tra ostaggi e terroristi; l’attacco alla scuola di Beslan nel settembre 2004 dove sono morte più di 330 persone tra cui 180 bambini; gli attacchi dinamitardi alla metro di Mosca nel 2004 e 2010; gli attentati sui treni “Nevsky express” nel 2007 e nel 2009; gli attentati all’aeroporto moscovita di Domodedovo (2011) e alla stazione di Volgograd nel dicembre 2013 ecc. sono tutti episodi dimostrativi che hanno preso di mira obiettivi civili con lo scopo di diffondere terrore nella popolazione. Similmente, i jihadisti caucasici hanno anche comprovato di poter costruire (e fortunatamente non utilizzare) ‘bombe sporche’ come quella rinvenuta nel 1995 nel parco Ismailovsky a Mosca. Sono tutte azioni dimostrative ad alto contenuto simbolico.
Hanno dimostrato un’ottima organizzazione…
Allo stesso tempo, è preoccupante notare come in Russia la natura “organizzata” del terrorismo sia stata ridimensionata dagli ultimi episodi che vengono compiuti da individui sempre più autonomi sul piano operativo e logistico e “affiliati” come dei franchisee - ma non propriamente membri - di una rete di terrorismo transnazionale. Basti pensare alle azioni individuali compiute dai “lupi solitari” o delle “vedove nere” e “bianche”, a seconda che si trattasse di terroriste etnicamente non-russe o di russe convertite. Questa realtà decentralizzata e frammentata preoccupa maggiormente i vertici dell’antiterrorismo russo che devono ricorrere a costose e complicate tattiche di controllo capillare della popolazione.
Qual è l’impegno russo in Medio Oriente contro il terrorismo islamico?
In Medio Oriente, la Russia persegue i suoi interessi strategici scontrandosi inesorabilmente con chi li minaccia. Nel 2014, Mosca era assorbita dalla crisi internazionale causata dall’annessione della Crimea e dalla guerra nel Donbass, marginalizzando il problema dell’Isis a una questione che doveva essere risolta dagli stessi occidentali che l’avevano creata. Nei primi mesi del 2015, quando l’avanzata dell’Isis in Siria e in Iraq sembrava inarrestabile e lo stesso regime di Assad pareva vacillare, la Russia iniziò a preparare una campagna militare e mediatica per giustificare il dispiegamento di forze russe a fianco delle truppe di Damasco nella guerra civile siriana. Alle operazioni militari, seguirono degli attacchi terroristici che impressionarono notevolmente l’opinione pubblica russa. La bomba nascosta sull’aereo della Metrojet decollato da Sharm el-Sheikh proprio per San Pietroburgo causò 224 vittime nel 31 ottobre 2015, a un mese dall’inizio delle operazioni militari in Medio Oriente. Da allora, il discorso politico russo si sarebbe ulteriormente rifatto a una sorta di ruolo “messianico” che la Russia avrebbe avuto nel difendere la cristianità contro il male rappresentato dall’Isis, alimentando ulteriormente una narrativa da scontro di civiltà.
Una minaccia sempre più credibile?
Le ripetute intimidazioni dei jihadisti sui social network (compreso un messaggio apparso sui telefonini degli utenti che si connettevano alla rete wi-fi della metro di Mosca), le ulteriori escandescenze nel Caucaso e il primo attentato in territorio russo rivendicato dall’Isis nell’agosto 2016 - quando due giovani ceceni attaccarono una stazione di polizia a Sholkovo - resero le minacce dell’Isis sempre più credibili. L’uso smisurato della forza militare russa ad Aleppo - nel chiudere la via dei rifornimenti e nel condurre bombardamenti incessanti contro i ribelli - creò sdegno a livello internazionale, sollevando il risentimento di altri gruppi politici in lotta nella guerra civile siriana - e non necessariamente affiliati all’Isis - che avrebbero a loro volta criticato le azioni di Mosca. L’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara nel dicembre 2016 per mano di un poliziotto turco è l’ennesima prova delle manifestazioni di insofferenza nei confronti della Russia mentre nel frattempo magliette con l’immagine di Putin vengono vendute a Latakia. In Medio Oriente, la Russia difende i propri interessi ma ciò spesso non corrisponde a quelli delle popolazioni.
Perché colpire proprio San Pietroburgo? È un simbolo? L’attacco vuole colpire la leadership di Vladimir Putin?
Il terrorismo in Russia è un fenomeno molto più frequente di quanto non appaia sui media e sui giornali. Nel nord del Caucaso, attacchi contro le istituzioni o contro i civili sono fenomeni molto frequenti che non fanno più notizia da molto tempo. Invece, l’esplosione su un treno della metropolitana di San Pietroburgo tra le stazioni Tekhnologicheskii Institut e Sennaya Ploshchad e il ritrovamento di un altro ordigno inesploso nella stazione di Ploshchad Vosstaniya sono evidentemente frutto di un’azione coordinata e hanno un alto valore simbolico e dimostrativo. San Pietroburgo non solo è la seconda maggiore città e la storica capitale della Russia, ma è anche il luogo che ha dato i natali a Putin. Inoltre, l’attacco è stato condotto in una giornata in cui il presidente era a San Pietroburgo per incontrarsi con l’omologo bielorusso Lukashenko. Difficilmente potremmo sostenere che la vittima designata dell’attentato fosse lo stesso Putin e non possiamo credere che gli attentatori sperassero di incontrarlo in metropolitana. Allo stesso tempo, però, gli attentatori sono riusciti a bloccare il centro di una città nevralgica in un momento così delicato, marcando così le potenzialità di un terrorismo che è capace di colpire la Russia al cuore.
Il sistema politico in Russia risentirà dell’attentato?
Il sistema politico russo è fortemente incentrato sulla figura del presidente Putin e, dal punto di vista narrativo, sulla sua determinatezza. L’atteggiamento che Putin assumerà nei prossimi giorni sarà così frutto di una strategia politica che punta a neutralizzare non solo gli esecutori materiali (i terroristi) ma anche il principale effetto degli attentati (il terrore). Non a caso, l’atteggiamento russo è stato sempre quello di limitare l’impatto emotivo degli attentati, mostrando un’operatività di stampo militare e l’attitudine a ripristinare l’ordine nel minor tempo possibile. L’obiettivo è quindi di far fallire il terrorismo non solo sul piano tattico militare ma anche sull’impatto psicologico che questo ha sulla popolazione, minimizzandone gli effetti. Sul piano tattico, possiamo invece ipotizzare un’immediata risposta dura (come in Cecenia) volta a marginalizzare e neutralizzare le capacità operative di quelle figure affiliate o sospettate di terrorismo.
Putin si è sempre dimostrato un abile leader...
In questa partita politica, Putin deve dimostrare ancora una volta di essere un leader abile, forte contro una minaccia terroristica che sfida la sua credibilità sul piano interno e internazionale e capace di sfruttare questi eventi a proprio vantaggio distogliendo l’attenzione dal malcontento che sempre più frequentemente sembra dilagare nel Paese. Già lunedì, con i corpi delle vittime ancora a terra, il presidente russo ha dato prova di forza scegliendo di non cambiare la sua agenda nemmeno davanti ad una città bloccata e scioccata dagli attentati e segnando quella che potrebbe essere una momentanea tregua con le opposizioni in un momento in cui il Paese viene chiamato al ritorno alla normalità e all’unità contro un nemico comune. È sciocco credere alle teorie del complotto, ma non è da escludere che Putin possa usare questi fatti per rafforzare la propria posizione, marginalizzare le opposizioni e interrompere quel flusso di dissenso che era emerso nel corso delle ultime manifestazioni antigovernative.
Da questo attacco potrà nascere un nuovo fronte comune anti-Isis che lega Mosca e Washington?
Dopo l’11 settembre, mentre il mondo era in preda all’isteria per la “lotta al terrore”, molti Paesi sono stati capaci di accreditare, anche a livello internazionale, delle campagne repressive nei confronti dell’opposizione o non propriamente rispettose dei diritti umani. Come sappiamo, questo è stato il caso della Cecenia. Attualmente, la capacità di poter individuare un nemico comune sul piano tattico seppur con diversi obiettivi strategici da parte dei diversi attori geopolitici (come Stati Uniti, Russia, Iran e Turchia) testimonia come, ancora una volta, il, terrorismo sia soprattutto un fenomeno politico. Partecipando alla guerra in Siria e assumendo una sorta di ruolo messianico contro le forze malvagie dell’Isis, Mosca è già in parte uscita da quell’isolamento internazionale a cui era stata sottoposta dopo l’annessione della Crimea e continuerà a giocare la carta dell’antiterrorismo sul piano interno ed esterno, affermano i suoi interessi nei vari scenari regionali e globali.
(*) La versione integrale di questa intervista sarà pubblicata sul numero di aprile de “L’Opinione. Idee e Azioni”
di Michele Di Lollo