venerdì 17 marzo 2017
“Viviamo tempi difficili”. È così che il re di Giordania Abdullah si esprimeva sei mesi fa. Come ho potuto constatare nel mio intenso viaggio di una settimana in Giordania costellato da vivaci dibattiti, tutti sono d’accordo con questa affermazione. La Giordania non può più essere sotto assedio e trovarsi in una situazione di estrema vulnerabilità, come nei decenni passati, ma probabilmente dovrà affrontare problemi senza precedenti.
Creato dal nulla da Winston Churchill nel 1921 per soddisfare gli interessi dell’Impero britannico, l’emirato di Transgiordania, ora regno hashemita di Giordania, per quasi un secolo ha condotto un’esistenza precaria, vivendo momenti particolarmente pericolosi. Come accadde nel 1967, quando le pressioni pan-arabiste indussero re Hussein (che regnò dal 1952 al 1999) a fare guerra a Israele, una guerra che gli costò la perdita della Cisgiordania; nel 1970, quando una rivolta palestinese quasi rovesciò il sovrano giordano e, nel 1990-1991, quando i sentimenti filo-Saddam Hussein spinsero re Hussein a unirsi a una causa dannosa e senza speranza.
I pericoli odierni sono molteplici. L’Isis si annida in Siria e Iraq, appena oltre il confine, allettante per una piccola ma reale minoranza di giordani. Il commercio, un tempo dinamico, con questi due Paesi è crollato, e con esso il proficuo ruolo di transito della Giordania. In una regione, in cui abbondano il gas e il petrolio, la Giordania è uno dei pochissimi Paesi a non disporre di alcuna risorsa petrolifera. Gli abitanti delle città ricevono l’acqua solo un giorno alla settimana e gli abitanti delle campagne spesso anche meno. Il turismo è diminuito grazie alla notoria instabilità del Medio Oriente. La recente riaffermazione di autorità da parte di re Abdullah irrita coloro che chiedono più democrazia.
La questione centrale dell’identità rimane irrisolta. Da oltre cento anni il Paese è meta di una continua e massiccia immigrazione (superando perfino le cifre che riguardano Israele), che si tratti di palestinesi (nel 1948, 1967 e nel 1990-1991), di iracheni (2003) o di siriani (dal 2011). Secondo la maggior parte delle stime, i palestinesi, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione del Paese, rappresentano la divisione più profonda. È normale parlare di “giordani e palestinesi” anche se questi ultimi hanno ottenuto la cittadinanza e sono nipoti di persone che hanno avuto la cittadinanza. Come ciò sta a indicare, il senso di superiorità nei confronti delle popolazioni tribali della Transgiordania non è diminuito nel corso del tempo, e soprattutto se i palestinesi hanno raggiunto il successo economico.
Anche i punti di forza del Paese sono formidabili. Circondata da zone di crisi, la popolazione è realista e molto cauta. Il re gode di un’indiscussa posizione autorevole. I matrimoni misti smorzano la divisione storica del Paese tra i palestinesi e le tribù – ma anche l’afflusso di profughi dall’Iraq e dalla Siria. La popolazione ha un elevato grado di istruzione. La Giordania gode di un’ottima reputazione in tutto il mondo.
E poi c’è Israele. “Dove sono i frutti della pace?”, è un ritornello comune che echeggia riguardo al trattato che la Giordania ha siglato nel 1994 con Israele. I politici e la stampa forse non ne parlano, ma la risposta è palesemente ovvia: che si tratti di utilizzare Haifa come alternativa alla rotta siriana, dell’acquisto di acqua a basso costo o della fornitura di abbondante gas (la cui esportazione è stata avviata), la Giordania beneficia direttamente e ampiamente dei suoi legami con Israele. Nonostante questo, una perversa pressione sociale contro una “normalizzazione” dei rapporti con Israele si è accentuata gradualmente, creando un clima intimidatorio e impedendo alle relazioni con lo Stato ebraico di raggiungere il loro potenziale.
Un giordano mi ha chiesto perché gli israeliani accettano di essere trattati come un’amante. La risposta è chiara: perché il benessere della Giordania è considerato una priorità assoluta di Israele. È per questo che i successivi governi israeliani accetteranno, se pure a denti stretti, le calunnie e le menzogne della stampa e per strada. Anche se sono troppo educati per dirlo, essi sperano ovviamente che il re prenda in mano la questione e sottolinei i vantaggi della pace.
Una nota personale: dal 2005 auspico l’annessione della “Cisgiordania alla Giordania e della Striscia di Gaza all’Egitto: la soluzione dei tre Stati” come un modo per risolvere il problema palestinese. Di conseguenza, ho chiesto a quasi tutti i miei 15 interlocutori (che rappresentano un ampio spettro di punti di vista) cosa ne pensassero di un ritorno della sovranità giordana sulla Cisgiordania. Mi duole dire che ognuno di loro ha respinto categoricamente questa idea. “Perché dovremmo volere questo grattacapo?”, sembravano tutti asserire. L’accettazione di questo verdetto negativo significa che Israele non ha alcuna soluzione pratica alla questione della Cisgiordania, pertanto la sua sovranità riluttante e indesiderata sui palestinesi probabilmente continuerà a lungo termine. Riassumendo questa visita: la Giordania ha superato molte crisi, potrebbe farlo ancora, ma la serie di pericoli attuali rappresenta una straordinaria sfida per la Giordania e i suoi numerosi sostenitori. Re Abdullah riuscirà a far fronte a questi “tempi difficili”?
(*) Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Daniel Pipes (*)