martedì 25 ottobre 2016
Uno degli enigmi che si collegano con le ormai imminenti elezioni presidenziali statunitensi è quello del futuro della Nato. Un enigma non da poco, visto che la vecchia Alleanza Atlantica resta pur sempre uno strumento fondamentale della politica estera di Washington e, pertanto, inevitabilmente condizionata dalle svolte impresse a quest’ultima da chi siede nello Studio Ovale. E, in effetti, dopo la caduta del Muro di Berlino a la fine della Guerra Fredda, abbiamo visto i presidenti americani dare della Nato “letture” molto diverse, talvolta contrastanti. Da Bill Clinton che la interpretò, sic et simpliciter, come la lunga mano operativa di un’America “guardiana degli equilibri mondiali”, a George W. Bush quando, per bocca del suo segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, la Nato venne definita semplicemente “vecchia”. Ovvero superata, destinata ad essere sostituita da, occasionali, “Coalizioni di volenterosi”, espressione di una nuova realtà mondiale fondata su alleanze a geometrie variabili, e quindi in continua evoluzione.
Quanto a Barack Obama, l’incerta politica estera dei suoi due mandati ha avuto un’unica costante: lasciar fare agli alleati, spesso limitandosi ad assecondarne le strategie regionali, specialmente nel quadrante mediterraneo e medio-orientale. Con le ricadute che ancora possiamo vedere in Libia e Siria, tanto per fare solo due esempi. Perché, in fondo, quello che davvero interessava all’Amministrazione Obama era, e continua ad essere, il confronto con la Cina nell’area del Pacifico e dell’Indiano, mentre gli scenari atlantici ed europei sono diventati sempre più dei target secondari. Sino, naturalmente, alla crisi Ucraina, che ha riportato prepotentemente in Europa l’attenzione della Casa Bianca. Ritorno forzato, ché proprio il conflitto ucraino è l’esempio lampante di quel delegare l’iniziativa agli alleati di cui abbiamo parlato. Infatti la rivolta e il conseguente Regime Change di Kiev dal quale sono stati generati i problemi con Mosca, è stata fomentata e sostenuta da Polonia e Paesi Baltici, non senza un qualche beneplacito di Berlino. Mentre Washington guardava, forse troppo distrattamente, agli avvenimenti.
Comunque, è inevitabile che il ruolo della Nato subisca, con il prossimo presidente, un’ulteriore metamorfosi, forse la più radicale della sua storia recente. E questo per due, ben precise, ragioni. In primis l’eredità di Obama, la cui strategia ha reso notevolmente difficili i rapporti con alleati fondamentali. In primo luogo la Turchia, che si è sentita tradita dalla politica di Washington volta a favorire le istanze indipendentiste dei curdi in cambio dell’impegno dei peshmerga come fanterie contro lo Stato islamico. Strategia che altro non è che una delle ricadute della volontà dell’Amministrazione di non far più coinvolgere truppe americane nei conflitti sul terreno; linea sostenuta pervicacemente sino a poche settimane fa, quando in Iraq Obama, pur in misura limitata, ha dovuto recedere dalle sue posizioni. E inviare uomini con gli “stivali nella polvere”. Inoltre Ankara, preoccupata per il futuro assetto del Medio Oriente e sospettosa per una certa ambiguità di Washington in occasione del tentato golpe del 15 luglio scorso, sta apertamente flirtando con Mosca. Non solo Putin ed Erdogan hanno, nelle scorse settimane, siglato importanti accordi in campo economico ed energetico, ma si parla con insistenza anche di una cooperazione sul piano delle tecnologie militari. Ed essendo quelle turche le seconde forze armate della Nato, è facile comprendere come tali accordi potrebbero risultare deflagranti per l’Alleanza Atlantica nel suo complesso. Alleanza, peraltro, messa a dura prova anche dalla Brexit, che vede Londra, da sempre l’alleato più fidato di Washington, allontanarsi dall’Europa, ed avere quindi sempre meno influenza sulle decisioni degli ormai ex-partner Francia e Germania. Inoltre la politica della “delega” di Obama ha lasciato troppo margine di manovra a membri recenti della Nato, Polonia in testa, favorendo, inoltre, un allargamento ad est dell’alleanza che ha portato la tensione con il Cremlino a livelli da Guerra Fredda. Questo, però, con grave nocumento degli interessi di Paesi come l’Italia e la Grecia che della Nato sono membri non secondari.
Eredità (pesante) di Obama a parte, il vera enigma sul futuro della Nato resta, naturalmente, legato a chi siederà all’inizio del 2017 nello Studio Ovale. Donald Trump, certo, preoccupa perché rappresenta, in politica estera più che in ogni altra cosa, un colossale punto interrogativo. Stando alle sue dichiarazioni, per altro sovente contraddittorie ed estemporanee, il tycoon tende a considerare la Nato un ente inutile e inutilmente dispendioso. In buona sostanza, argomenti tratti dal vecchio arsenale retorico dell’isolazionismo statunitense, affiancati da altri che potrebbero prospettare una sorta di nuova “diplomazia personale” dell’aspirante Presidente... ancora troppo poco, però, per azzardare previsioni. Anche perché non si sa chi Trump sceglierebbe, se eletto, come segretario di Stato e chi come segretario alla Difesa.
Hillary Clinton, invece, preoccupa per la ragione opposta: perché le sue idee in politica internazionale sono ben note e già provate quando era segretario di Stato, e da Foggy Bottom favorì l’intervento in Libia e le rovinose “Primavere Arabe”. È pertanto facile prevedere una strategia estremamente aggressiva con un acuirsi della tensione sia con Mosca che con Pechino. Ed un interventismo molto più deciso di quello del titubante Obama. Tutto questo, naturalmente, si tradurrebbe in una richiesta di sempre maggior impegno agli alleati. Richiesta che, però, potrebbe portare la Nato a disgregarsi, proprio per la divaricazione di interessi maturata, fra i vari partner, in questi ultimi otto anni.
(*) “Il Nodo di Gordio” - Think tank di studi geopolitici
di Andrea Marcigliano (*)