martedì 10 maggio 2016
“Too close to call”, troppo vicini per poter proclamare il vincitore. Questo il pronostico dell’ex presidente Usa, Bill Clinton, per la corsa alla Casa Bianca. Uno scontro che, con tutta probabilità, vedrà contrapposti la moglie Hillary e l’esuberante magnate Donald Trump.
Una partita tutta da giocare e che sta riservando non poche sorprese e qualche grattacapo tra le fila dei Repubblicani, ma che non lascia indenne nemmeno la galassia dei Democratici. Una sorprendente ascesa, quella di Trump, considerato fino a pochi mesi fa uno sparring partner senza alcuna possibilità di ricevere la nomination Repubblicana per il voto presidenziale, ascrivibile alla sua capacità di parlare allo stomaco degli americani. Il suo linguaggio diretto – a tratti persino rozzo – è riuscito nel difficile compito di mobilitare alle primarie un numero senza precedenti di cittadini che in passato non sono mai andati a votare.
Dello stesso avviso è anche Richard Perle che, in un’intervista rilasciata in esclusiva al think tank “Il Nodo di Gordio”, non sottovaluta affatto la possibilità che Trump possa diventare a novembre il nuovo inquilino della Casa Bianca. Perle, allergico alla sovraesposizione mediatica, è uno dei più ascoltati esperti di politica internazionale nelle stanze dei bottoni. Dopo aver ricoperto incarichi di rilievo nell’Amministrazione Reagan e in quella di George W. Bush, attualmente è membro di alcuni dei think tank più gettonati a Washington – dall’Hudson Institute al Washington Institute for the Near East Policy. “The Prince of Darkness”, come viene soprannominato dalla stampa americana per la sua influenza e il suo carattere schivo, descrive a ruota libera i fallimenti della politica estera di Barack Obama, il disimpegno degli Stati Uniti in Medio Oriente e il conseguente vuoto di potere lasciato in un’area che ora rischia di deflagrare. Un segnale di debolezza che ha consentito il dilagare dello Stato islamico ed il rafforzamento in questo delicato quadrante geopolitico di Iran e Russia. Tutti buoni motivi che – per il “Principe delle Tenebre” – fanno pendere l’ago della bilancia dalla parte di Trump.
Che cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro inquilino della Casa Bianca? Come potrebbe cambiare la politica estera di Washington con la Clinton o con Trump?
In un normale anno elettorale, in America, avremmo un’idea ormai precisa delle prospettive di politica estera da parte dei candidati. Ma questo non è un anno normale. Se Hillary Clinton diverrà presidente, la politica estera sarà costituita in gran parte dalla tradizionali istituzioni burocratiche di politica estera e di sicurezza: il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, l’intelligence nonché la comunità dei diplomatici di carriera e in pensione che trasmettono il codice genetico dell’ininterrotta politica estera americana post Seconda guerra mondiale: un ritorno alle politiche pre-Obama in contrasto con la sua leadership debole e disimpegnata. Ma se sarà eletto Donald Trump – e lui è il probabile candidato – nessuno può dire quali saranno le politiche che adotterà. Non credo che abbia mai dedicato alcun serio pensiero né alla politica estera né alla sicurezza e qualsiasi cosa dica nel corso di una campagna elettorale non deve essere preso in considerazione. Senza alcun antecedente da tutelare lui può – e potrà – dire tutto ciò che pensa, per arrivare alla Casa Bianca. Solo allora egli inizierà a considerare la politica estera e la sicurezza americana. La cavalcata si prospetta selvaggia.
Cosa pensa del ritiro delle truppe Usa voluto da Obama all’inizio del suo primo mandato? L’impressione è che si sia trasformato in un pericoloso boomerang, aprendo la strada all’Isis...
La decisione da parte del presidente Obama di ritirare le truppe statunitensi dall’Iraq, così come la sua incapacità di riconsiderare tale decisione allorché la situazione si era successivamente deteriorata, è stato un grave errore. Per essere onesti, il presidente Bush aveva negoziato il ritiro delle truppe americane, una decisione che avrebbe quasi certamente modificato quando le sue conseguenze divennero esaurientemente evidenti. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’assenza delle truppe americane in Iraq abbia creato un vuoto che l’Isis era ansioso di sfruttare a proprio vantaggio e che continua a sfruttare anche adesso.
La gestione del conflitto in Siria ha, sino ad ora, visto Washington molto incerta, e lasciato spazio all’iniziativa di Mosca e Teheran. Che implicazioni potrebbe avere questo nei futuri assetti del Medio Oriente?
Il posto del presidente Obama nella storia sarà visibilmente definito dalla sua politica in Siria. Invece di adottare una politica atta ad affrontare una rivolta anti-Assad, all’inizio, quando era possibile esercitare un’influenza sulla sua conformazione e il suo carattere, Obama ha relegato gli Stati Uniti al margine e, così facendo, ha permesso agli iraniani, ai sauditi, ai russi, ai turchi e agli altri di influire su un allineamento sempre più micidiale di forze. Assad ha ricevuto il sostegno di Teheran e Mosca, mentre gli estremisti islamici erano armati e sostenuti dai sauditi, dai turchi e dagli altri Stati del Golfo. Il risultato dell’immobilismo di Obama è stato quello di abbandonare il campo alle forze anti-occidentali su entrambi i lati, lasciando gli Stati Uniti ed i suoi alleati in una posizione inevitabilmente perdente. La lezione in cui possiamo solo sperare e che sarà assimilata dal prossimo presidente americano è quella secondo cui, quando gli Stati Uniti non riescono ad agire, l’Occidente è posto alla mercé di forze ostili e che non ci si possa aspettare un risultato positivo.
Gli accordi di Ginevra con l’Iran vengono considerati da Obama come un grande successo, e come un passaggio fondamentale per portare la pace in tutto il Medio Oriente. È d’accordo con questa visione o pensa che fidarsi troppo degli iraniani possa essere un errore?
L’accordo che è stato raggiunto con l’Iran, sotto grande pressione da parte degli Stati Uniti, si rivelerà dannoso sia nel breve che nel lungo termine. Nel breve periodo ha dato al regime di Teheran un’ancora di salvezza nel momento stesso in cui era alla deriva e vicino all’affondamento. L’accordo ha rafforzato il prestigio di un regime irrimediabilmente ostile all’Occidente in generale, e agli Stati Uniti, Israele e ai governi del Golfo sunniti in particolare. L’accordo ha glissato su seri problemi tecnici e di verifica, compiacendo le forze armate, i missili balistici di Teheran, nonché avallando il sostegno a continuare con il terrorismo e la destabilizzazione regionale. Nel lungo periodo, l’accordo, per quanto scrupolosamente attuato, il che è improbabile, inevitabilmente accelererà la proliferazione delle armi nucleari in una zona pericolosamente instabile del mondo. Non credo nemmeno che Obama ritenga che quest’accordo fermerà lo sviluppo di armi nucleari iraniane. Piuttosto, egli si aspetta, a torto, che l’accordo condurrà ad un cambiamento fondamentale nella posizione politica e militare iraniana, spalancando le porte ad un Iran pacifico e bendisposto. Tra i tanti, la mancata comprensione da parte di Obama del regime di Teheran costituisce un errore di proporzioni storiche.
(*) Chairman think tank “Il Nodo di Gordio”
di Daniele Lazzeri (*)