martedì 19 aprile 2016
Si sono accusati a vicenda, gli azeri da una parte e le autorità del Nagorno-Karabakh dall’altra, della violazione del cessate il fuoco che ha riacceso drammaticamente nei giorni scorsi il conflitto mai sopito tra Azerbaigian e Repubblica del Nagorno- Karabakh, provocando numerosi morti tra i due schieramenti. Gli osservatori stranieri hanno difficoltà a capire la dinamica dell’accaduto e resta un mistero anche il numero preciso delle vittime: quello che è certo è che lungo la caldissima frontiera si sono affrontati carri armati, elicotteri e l’artiglieria pesante con i razzi Katiuscia. Le fonti delle forze di autodifesa dei secessionisti a Stepanakert, la capitale del Nagorno- Karabakh, sostengono di aver ucciso almeno 200 soldati di Baku, tra i quali diversi elementi delle truppe speciali; il portavoce del ministero della Difesa azero parla invece di 100 caduti nemici e molti mezzi distrutti. Sono stati colpiti però anche insediamenti civili lungo la frontiera, molte case sono state distrutte e ci sarebbero anche vittime innocenti tra la popolazione.
Lo scoppio delle ostilità ha sorpreso anche la Russia, che è il garante della fragile tregua nel Nagorno-Karabakh e che si è subito attivata. Il presidente russo Putin ha rivolto un appello pubblico ai presidenti dell’Armenia, Serž Sargsyan - la popolazione del Nagorno-Karabakh è di origine armena e sono strettissimi i rapporti tra Erevan e la repubblica secessionista - e dell’Azerbaigian, Aliyev, sollecitando un immediato cessate il fuoco e li ha invitati ad usare la massima moderazione per impedire altre vittime. Il ministro della Difesa russo, Sergey Shoygu, ha inoltre telefonato ai colleghi sia di Baku che di Erevan ed ha messo a disposizione le truppe russe che si trovano nell’area per creare una zona cuscinetto tra i due schieramenti. Mosca schiera in Armenia una brigata aerea con i nuovissimi Mig 29S presso la base aerea di Erebuni a pochi chilometri dalla capitale Erevan e la 102 Divisione dell’Esercito russo è di stanza nella città di Gyumri, nella parte nord occidentale del paese.
Il riacuirsi del conflitto in Nagorno-Karabakh preoccupa non poco il Cremlino, che vuole evitare un altro fronte caldo alle porte di casa, con la crisi ucraina ancora da archiviare, la guerra in Siria e le tensioni con la Turchia ancora vive. Il Nagorno-Karabakh è una polveriera sin dai tempi di Stalin, che nel 1923 volle assegnare all’Azerbaigian musulmano l’enclave popolata in prevalenza da armeni cristiani. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1988 gli armeni del Nagorno-Karabakh decisero di staccarsi dal controllo di Baku per riunirsi alla madre Armenia. Le autorità di Baku ovviamente respinsero le istanze secessioniste del Nagorno-Karabakh e iniziarono scontri tra le due fazioni che ben presto assunsero le forme di un conflitto etnico, coinvolgendo direttamente anche l’Armenia che inviò uomini e armi nel Nagorno-Karabakh.
La drammatica guerra tra armeni e azeri è durata fino al maggio del 1994, quando a Biškek, capitale del Kirghizistan, venne firmato tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno- Karabakh, l’“Accordo di Biškek”, che prevedeva il cessate il fuoco tuttora in vigore. Il lungo conflitto ha provocato la morte di oltre 30mila persone, moltissimi civili, tra i quali donne e bambini, 80mila feriti, tra cui numerosissimi amputati, e centinaia di migliaia di profughi. In Armenia non sono rimasti più azeri e dall’Azerbaigian sono scappati gli armeni. Da quella data i rapporti tra Erevan e Baku non si sono mai rasserenati, malgrado i frequenti incontri tra le autorità dei due Paesi e gli sforzi di mediazione internazionali, primi tra tutti quelli di Mosca. Il Nagorno Karabakh resta formalmente un’enclave azera - Baku non ha mai accettato l’autoproclamatasi repubblica - che però è di fatto indipendente, con forti legami con l’Armenia.
E la frontiera continua ad essere vigilatissima da parte dei militari dei due schieramenti, con sporadici episodi di cecchinaggio tra i due lati, in una sorta di conflitto congelato. Sulla situazione in Nagorno-Karabakh si sono succedute commissioni dell’Onu che hanno perfino approvato all’unanimità risoluzioni mai poi applicate; l’Osce, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha costituito nel 1995 il Gruppo di Minsk allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata del conflitto, che però stenta a trovare una quadra tra i due contendenti. Forze di interposizione, prevalentemente russe, sono state poi dispiegate dopo ogni violazione del cessate il fuoco e ce ne sono state diverse da entrambe le parti. L’unica cosa che si è riuscita a ottenere in quasi trent’anni è stata una tregua davvero precaria. Lo schieramento di armi e uomini al confine è massiccio. L’Armenia è sostenuta dalla sua numerosa diaspora in tutto il mondo e dalla Russia; la Repubblica islamica dell’Azerbaigian ha nella Turchia, con cui il Paese vanta storici legami e una lingua simile, il più stretto alleato.
Ankara non ha mancato recentemente di esprimere aperte critiche verso l’Armenia, accusata di fomentare il conflitto contro Baku, attraverso le milizie del Nagorno- Karabakh. Secondo fonti dell’intelligence russa, non verificate, Erdogan avrebbe perfino ordinato ai soldati turchi di rafforzare le posizioni sulla frontiera con l’Armenia. E quando si parla di Turchia e Armenia il ricordo va al martirio di oltre 1,5 milioni di armeni, il cui centenario è stato celebrato lo scorso aprile con una solenne messa a San Pietro da Papa Francesco.
Il Pontefice ha in programma, tra pochi mesi, una visita pastorale in quella parte del mondo e toccherà anche l’Armenia. C’è da augurarsi che il messaggio di pace che il Papa porterà a quelle genti venga ascoltato da chi ha il potere di far cessare le ostilità. Il mondo ha bisogno di pace non di nuovi conflitti.
di Paolo Dionisi