Chiunque vinca, Usa più isolazionisti

sabato 2 aprile 2016


Dopo mille e più sparate contro nemici veri e presunti dell’America, Donald Trump e Ted Cruz hanno selezionato le loro squadre di consiglieri di politica estera e il loro programma sta finalmente prendendo forma. Lo stesso accade in campo democratico, dove le idee che riguardano la sfera internazionale erano già molto più esplicite. Per Hillary Clinton, poi, sono già state messe in pratica, quando era segretaria di Stato dal 2009 al 2012.

Se c’è una differenza negli atteggiamenti dei candidati di destra e di sinistra, su una cosa paiono convergere (e convergeranno, nel bene e nel male) tutti: un maggior isolazionismo. Gli Usa stanno ripiegando. Ormai questa è una tendenza ben visibile dal 2008 ed è pressoché irreversibile. Più che da una volontà politica o da un’ideologia, è un trend dettato dalla crisi economica e dalla sua lunga uscita. È la lenta ripresa dopo una recessione che sta ancora dettando l’agenda all’opinione pubblica, spostando l’attenzione sulla politica interna più che sui problemi del resto del mondo. Secondo i piani già impostati dal Pentagono, entro il 2017 le forze di terra degli Usa saranno le più piccole dal 1941. Cioè da quando gli Usa furono costretti a uscire dal loro lungo isolamento post-Wilson dall’attacco giapponese a Pearl Harbour. La marina, già considerata dalla Heritage Foundation come sotto-dimensionata rispetto alle sue missioni potenziali, subirà un taglio di 7 miliardi di dollari. Sempre per il 2017 è previsto un taglio sensibile (circa 700 milioni di dollari) anche al fiore all’occhiello della tecnologia militare Usa: la difesa anti-missile. E questo nonostante il pericolo della proliferazione nucleare e missilistica sia in crescita costante. Inevitabilmente, la mancanza di “hardware” (militare) condiziona anche il soft power, la sfera diplomatica e l’influenza sulle scelte di alleati e nemici. E in questi otto anni di Obama abbiamo infatti assistito a un ritiro anche molto rapido degli Usa da tutte le regioni del mondo. Non c’è un solo alleato degli americani che non abbia percepito un maggior distacco (talvolta vissuto come un vero tradimento, come nei casi della Polonia e di Israele), così come non c’è nessun nemico giurato degli Usa con cui non sia stata tentata una qualche forma di appeasement, a volta fruttuoso (Iran e Cuba), a volte controproducente (Russia). Quella a cui abbiamo assistito è dunque una sorta di grande uscita concordata degli Usa dal mondo. Ed è destinata a continuare.

Non ci si deve far ingannare, infatti, dalla differenza dei toni e delle promesse dei candidati democratici e repubblicani. Il succo è sempre quello. Donald Trump promette che anche le forze armate debbano tornare “ancora grandi”, dunque prevede un aumento del budget militare. Ma per scopi difensivi. Come il suo presidente modello, Teddy Roosevelt, anche Donald Trump vorrebbe “fare la voce grossa e agitare un grosso bastone”, per intimidire ma non intervenire, per scoraggiare l’aggressore ma non per ingaggiarlo. Siamo agli antipodi delle politiche di esportazione della democrazia sin qui seguite da Reagan, Clinton e Bush figlio. Così come siamo lontani dal wilsonismo originario, quello del “mondo sicuro per la democrazia”. Ted Cruz mostra una certa propensione all’interventismo e un maggiore attaccamento agli alleati tradizionali degli Usa (soprattutto Israele). Ma anche qui non ci si deve illudere troppo, perché il suo interventismo è volto unicamente contro le minacce dirette alla sicurezza degli americani. Anche nel suo programma manca una visione strategica per il mondo, di lungo periodo. C’è una strategia difensiva, semmai, condivisa dagli alleati. Alleati che, invece, Trump vorrebbe scaricare, vorrebbe veder capaci di difendersi da soli, o di contribuire di tasca propria alla sicurezza condivisa.

In campo democratico, Hillary Clinton è la diretta discendente della politica di Obama, in parte ne è stata anche l’artefice in prima persona. Dunque un periodo di quattro anni di presidenza Clinton non sarebbe altro che un terzo mandato Obama, da questo punto di vista. Il trend dell’uscita concordata dal resto del mondo, sarebbe più che prevedibile con lei alla Casa Bianca. Ma se dovesse prevalere Bernie Sanders? O se dovesse continuare a erodere consensi alla Clinton, fino a costringerla a cercare una mediazione con la sua linea politica? Beh… A questo punto avremmo una contrazione rapidissima della presenza americana nel mondo. Perché il candidato socialista promette, infatti, di ridurre a un terzo l’arsenale nucleare, dimezzare la flotta (eliminando quasi tutte le portaerei) e chiudere le basi americane nei Paesi alleati, mantenendo in patria un piccolo corpo professionale adatto, al massimo, a un’azione di autodifesa. Il corso nuovo iniziato da Obama, verrebbe portato alle sue estreme conseguenze. Sarebbe difficile da realizzare un piano come quello di Sanders, ma la tendenza è chiara: più Stati vince in queste primarie, più la Clinton sarà indotta a tagliare il budget militare. Sanders non vorrebbe ridurre le forze armate nel nome dell’isolazionismo, bensì di un internazionalismo quasi irenico. Sogna grandi organi sovranazionali, che prendono decisioni collettive a cui possano partecipare, con uguali diritti, Usa, Russia e Paesi mediorientali. Otterrebbe, però, un isolazionismo di fatto, privando gli Stati Uniti del loro deterrente, oltre che della loro capacità di proiettare potenza.

Questa campagna elettorale, per le prospettive che spalanca, non deve lasciarci indifferenti. Qui è in gioco anche il futuro dell’Europa e del Mediterraneo, che ci riguarda direttamente. Non possiamo più prevedere di far pagare la nostra difesa al contribuente americano. Così come non possiamo più permetterci di attendere da Washington l’iniziativa per risolvere un nostro problema regionale. È ormai più che evidente che gli Stati Uniti, chiunque vinca nel 2016, vogliano degli alleati capaci di stare sulle loro gambe, in tutto e per tutto.


di Stefano Magni