Io ero a Bruxelles

venerdì 25 marzo 2016


La sera di lunedì 21 marzo sono arrivato a Bruxelles da Londra, dove già giravano voci di possibili, molteplici attacchi terroristici. La capitale dell’Europa era tranquilla mentre ci avviavamo verso il nostro albergo, a due passi dal cuore delle istituzioni chiave dell’Unione europea. Il giorno seguente, insieme ai colleghi dell’Ajc di Bruxelles, avevamo in programma incontri con tre commissari della Ue - due dei quali si occupano di terrorismo ed estremismo - e con il ministro degli Interni belga, responsabile per la sicurezza e l’ordine pubblico.

Gli incontri non hanno mai avuto luogo. La mattina di martedì 22 marzo sono andato al parco lì vicino per fare un po’ di sport. Subito dopo le 8, l’aria si è riempita dell’eco delle sirene della polizia e degli altri mezzi di soccorso, e del rumore dei camion dell’esercito che correvano tutti in una direzione. Era chiaro che non si trattava di un incendio o di qualche cosa di poco conto. La situazione diventava sempre più frenetica. Quando sono tornato in albergo e ho acceso la televisione, c’erano notizie di un attacco all’aeroporto di Bruxelles, e incertezze sulla natura dell’attacco e sul numero delle vittime. Poco tempo dopo, arrivava la notizia di un secondo attacco, questa volta alla stazione della metropolitana di Maelbeek, a pochi passi dal nostro hotel e nel cuore della struttura di governo dell’Unione europea. A questo punto i veicoli di emergenza hanno cominciato a muoversi in direzioni diverse, e con un numero crescente di ambulanze al seguito, mentre davanti al nostro albergo arrivavano guardie armate e due mezzi dell’esercito. Intanto, si susseguivano le notizie di chiusure parziali e totali della città. Nessuno sapeva se sarebbero arrivati altri attacchi, cosa che ovviamente non si poteva escludere.

Le tristi notizie sono emerse con il passare delle ore: nei due attacchi sono state uccise trentaquattro persone e ferite a centinaia, mentre pare che almeno un assassino sia a piede libero. L’Isis ha rivendicato gli attentati. Molti pensano che siano collegati alla recente cattura del latitante Salah Abdeslam, una delle menti della carneficina di Parigi del novembre scorso. Poco dopo Parigi, i riflettori sono stati puntati sul Belgio, per capire se anche quel Paese fosse ormai particolarmente “maturo” per un simile attacco. Dopotutto, sono passati meno di due anni da quando quattro persone sono state uccise in un attacco al Museo Ebraico del Belgio. E lo scorso agosto, il treno ad alta velocità Bruxelles-Parigi è stato il bersaglio di un altro attacco jihadista, sventato all’ultimo momento dai riflessi e dal coraggio di tre passeggeri statunitensi, tra gli altri. E nel mese di novembre Bruxelles fu blindata proprio perché sembrava che gli attacchi di Parigi fossero stati ideati nella città belga. E in effetti, Dachraoui era ricercato perché sospettato degli attentati di Parigi.

Oltretutto, alcuni analisti guardano alla numerosa comunità musulmana del Belgio ed alla creazione di “società parallele” in quartieri come Molenbeek. Una miscela di ideologia radicale e di modelli di integrazione falliti creano le condizioni per il sostegno e l’adesione all’Islamismo. E in effetti, come ci ha raccontato il ministro degli Interni belga nel corso di precedenti incontri, il Paese ha uno dei più alti, se non il più alto, numero pro capite di “combattenti stranieri” in Iraq e in Siria di qualsiasi altra nazione europea. E chi torna in Belgio può rivelarsi di grande pericolo. Dato il numero di persone necessarie per una sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro, diventa praticamente impossibile controllare costantemente tutti quelli che ritornano in patria. E, cosa non meno importante, girano voci che il Belgio abbia incontrato serie difficoltà nel mettere in atto una sofisticata strategia antiterrorismo all’altezza della minaccia, e che siano mancate capacità di intelligence adeguate. Le profonde divisioni del Paese lungo linee linguistiche; i vari livelli sovrapposti di governance federale, regionale e locale; e alcune leggi arcaiche (come ad esempio il divieto alla polizia di entrare nelle case dopo le 21) hanno fatto sì che un lavoro già di per sé difficile sia diventato molto più impegnativo.

Inoltre, e questo vale non solo per il Belgio, una certa mentalità compiacente che fa credere che “non potrebbe accadere qui” ha complicato ulteriormente le cose, persino dopo la lunga serie di attacchi terroristici che hanno colpito dalla Gran Bretagna alla Bulgaria, dalla Danimarca alla Francia, dal Belgio alla Spagna. L’Europa ha realizzato così tanto nel dopoguerra. È passata dall’essere un Continente intriso di sangue, ad una nuova Era di pace e di prosperità, fatta di società libere, dove la “soft power” ha trionfato all’interno dei confini in espansione. La nozione Kantiana della “pace perpetua” sembrava essere quasi a portata di mano. Ma l’Europa si trova ora ad affrontare una nuova realtà che, probabilmente, è destinata a durare. Naturalmente, deve continuare ad aspirare ai suoi nobili obiettivi, ma contemporaneamente deve affrontare senza indugio le minacce incombenti.

Negare la vastità del problema - un approccio da tempo favorito presso alcuni Paesi - non è più una strategia. E non è una strategia neanche portare avanti un dialogo idealista quando si ha di fronte l’ideologia di chi ama la morte. E razionalizzare il comportamento omicida - sulla falsariga del “sono poveri e lasciati a se stessi, che altra scelta possono mai avere?” - non è una strategia. E non lo è neanche illudersi che si tratti solo di persone che hanno le loro “legittime” motivazioni. E non è una strategia disprezzare i modelli di acculturazione falliti. Per vent’anni, in uno spirito di costante amicizia, l’Ajc ha attraversato tutta l’Europa occidentale per portare avanti la discussione sulle “tre I” - Immigrazione, Integrazione e Identità - quali priorità necessarie nelle società sempre più multiculturali. Allo stesso tempo, abbiamo più volte evidenziato le minacce all’impegno dell’Europa verso la tutela della dignità umana, tra cui l’aumento dell’antisemitismo e il pericolo che esso pone non solo agli ebrei, ma al tessuto stesso della democrazia. Potrei scrivere un libro su questi innumerevoli incontri, ma basti dire che in molti non volevano affrontare questa realtà che andava evolvendo, preferendo infilare la testa nella sabbia. Inutile aggiungere che non sia servito a niente. È vero, è tardi, ma non è troppo tardi. L’Europa deve affrontare e superare questo pericolo, e gli amici dell’Europa devono essere pronti ad aiutarli. Sono i nostri valori e il nostro modo di vita ad essere in bilico.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee


di David Harris (*)