Usa: ma se alla fine vincesse Trump?

sabato 19 marzo 2016


La strategia repubblicana è fallita. Come afferma John Podhoretz, direttore della rivista conservatrice Commentary, assisteremo ancora a “otto mesi di iper-ventilazione prima della vittoria di Hillay Clinton”. Perché ormai l’esito appare scontato.

Le critiche alla strategia repubblicana dei maggiori commentatori conservatori, fra cui lo stesso Podhoretz (e non solo lui) si rivolgono ormai al passato. “Si sarebbe dovuto” concentrare lo sforzo della macchina elettorale del Gop a sostegno del candidato più forte, Ted Cruz, turandosi il naso sul fatto che fosse un prodotto del movimento Tea Party e dunque anti-establishment dichiarato. “Si sarebbe dovuta” esercitare una pressione maggiore su Marco Rubio, così da indurlo a ritirarsi dopo il voto del 1 marzo, perché già allora era ampiamente prevedibile una sua sconfitta in Florida, a casa sua. “Si sarebbe dovuto” premere su Rubio o su Jeb Bush per indurre uno dei due a non presentarsi. In effetti, nelle prime settimane di elezioni, si sono rubati voti e spazi a vicenda, essendo entrambi della Florida (uno governatore e l’altro senatore) ed entrambi cari all’establishment. “Si sarebbe dovuto” capire, sin dai primi colpi a febbraio e (stando ai sondaggi) almeno sin da agosto, che Donald Trump non era solo una macchietta televisiva, una bolla mediatica destinata a sgonfiarsi dopo i primi voti, ma stava costruendo un suo popolo vero, pronto a votarlo. “Si sarebbe dovuta” interpretare meglio la rabbia anti-establishment del popolo conservatore e degli americani in senso lato, preoccupati dall’implosione della classe media, dall’immigrazione del Sud del continente, dall’Isis e dalla concorrenza cinese. Perché l’elettorato repubblicano è passato dall’ansia dei primi anni ‘10, che ha portato alla nascita e crescita del movimento Tea Party, che era anti-establishment ma sempre entro i canoni del pensiero conservatore, alla furia cieca attuale, che in Trump individua un giustiziere sia contro l’establishment che contro i valori conservatori sinora affermati.

Questi sono, appunto, tutti gli errori che il Grand Old Party si rimprovera, ma adesso è troppo tardi per correggerli. Perché ora l’alternativa è fra una vittoria conclamata di Donald Trump, primo esponente di una destra sociale nella storia americana recente, e la Brokered Convention, una prospettiva grigia di nomina di un candidato alla presidenza tramite un congresso di partito, come nelle più squallide, stanche, democrazie europee. Nel primo caso, il Gop dovrebbe accettare la sfida più grande: sostenere un candidato che rinnega l’identità conservatrice e, al tempo stesso, lancia una sfida al mondo. Al mondo, sì: la rivista Economist classifica una sua vittoria alla Casa Bianca come uno degli eventi più pericolosi del futuro, comparabile a un’escalation jihadista dell’Isis. L’Economist esagera, sicuramente. Ma quella classifica rileva l’ansia delle classi dirigenti, soprattutto europee, di fronte alla possibile novità di un Trump nello Studio Ovale. Fa capire che un suo insediamento alla testa della prima potenza mondiale, potrebbe sovvertire la politica per come sinora l’abbiamo conosciuta. E pochi, obiettivamente, si sentono di reggere un peso del genere. All’atto pratico, pochi lo sosterrebbero, probabilmente solo una minoranza lo voterebbe. In un duello alla pari fra Trump e la Clinton, la macchina elettorale democratica si metterebbe in moto per pompare al massimo queste paure. Formerebbe, sia in patria che all’estero, un vero “fronte anti-fascista”, capace di coalizzare tutti, estremisti, progressisti, moderati, indipendenti e conservatori, per battere il “nuovo Mussolini” d’America (già il soprannome di “Trumpolini” circola da mesi). In sintesi: vincerebbe la Clinton.

Se appoggiare la candidatura di Trump è un salto nel buio, la Brokered Convention è, se possibile, ancora peggio. Prima di tutto, il miliardario si sentirebbe giustamente scippato. E i suoi elettori con lui. Le primarie possono anche dare esiti imprevedibili, ma almeno hanno il vantaggio di far emergere un uomo che si è fatto conoscere agli elettori ed è stato selezionato dopo una serie di test e prove difficili, in tutti e cinquanta gli Stati. Nessuna élite del partito è mai riuscita a riassumere così bene il volere del suo popolo. Dunque, qualunque sia il candidato scelto da un congresso di delegati, risulterà infinitamente più debole rispetto a una nomination ottenuta dopo mesi di campagne elettorali, elezioni primarie e caucus. I nomi che stanno circolando, informalmente, sono poi quelli di uomini già testati e perdenti, come Mitt Romney o Paul Ryan (che ha già smentito dopo meno di 24 ore dalla pubblicazione dell’indiscrezione). Anche in questo caso, in sintesi: vincerebbe la Clinton.

Non si può fare a meno di notare, comunque, che in quasi otto anni di amministrazione Obama, il presidente più di sinistra della storia recente americana, i liberals sono riusciti ad ottenere quello che volevano: eliminare ogni alternativa a se stessi. Dopo aver lavorato alla conquista di tutte le cittadelle della cultura, dai media alle cattedre, dalle pubbliche amministrazioni fino alla Corte Suprema, hanno creato una polarizzazione in cui si è progressisti o esasperati oppositori senza arte né parte. Hanno contribuito a creare una destra vogliosa di sfasciare l’ordine costituito senza sapere cosa costruire dopo, incapace di formulare ed esprimere una cultura alternativa. Non è un caso che, a votare Trump, siano soprattutto gli operai, come è evidente nei risultati del Michigan e della Florida, per gli stessi motivi per i quali potrebbero benissimo votare anche a sinistra: invidia sociale, diffidenza nei confronti di Wall Street, paura della concorrenza, paura del cambiamento. Il pensiero progressista è espanso a tal punto che ha inglobato anche l’elettorato avversario. Quindi la Clinton pregusta una vittoria già scontata. Ma se alla fine vincesse Donald Trump?


di Stefano Magni