Cannibalismo politico: Repubblicani vs Trump

venerdì 11 marzo 2016


Dopo il super-martedì, del primo marzo, negli Stati Uniti le primarie procedono spedite verso l’elezione dei candidati alla presidenza. Mentre in campo democratico, nonostante la resistenza di Bernie Sanders, la vittoria ormai scontata appartiene a Hillary Clinton, è nel campo repubblicano che il caos regna sovrano e ci saranno sorprese.

La prima sorpresa in casa Grand Old Party è l’avanzata di Ted Cruz, che sta contendendo la nomination a Donald Trump. Il miliardario ha comunque vinto, in rapida successione e con ampi margini di vantaggio, in Michigan, Mississippi e Hawaii l’8 marzo e in Kentucky e Louisiana il 5 marzo, si è aggiudicato, in totale, 458 delegati sui 1237 necessari per vincere la nomination. Ma Cruz, pur ottenendo meno vittorie, ha ottenuto l’effetto di mettere i bastoni fra le ruote del tir di Trump, rallentandone l’avanzata. Il 5 marzo gli ha infatti sottratto il Kansas e il Maine e l’8 marzo anche l’Idaho. In questo modo, ha raggiunto quota 359 delegati. Sono 99 delegati di distanza rispetto a Trump: è una distanza grande, ma non irrecuperabile. Se fosse una corsa a due, ce la potrebbe fare. Ma non è una corsa a due. Piccoli, in fondo alla lista e in coda ai sondaggi, esistono ancora Marco Rubio con i suoi 151 delegati vinti e John Kasich con 54. La somma di tutti i punti dei candidati minori supera il numero di delegati di Trump e dà al Partito Repubblicano la possibilità di manovrare per escludere l’ingombrante “corpo estraneo” che sbanca alle urne. Cosa che sta puntualmente accadendo.

Con un accanimento senza pari nella storia delle primarie, tutto l’establishment del partito si è schierato contro Trump. L’ex candidato alla presidenza, Mitt Romney, ha lanciato un attacco a testa bassa prima dei voti del 5 marzo. La prestigiosa National Review si è schierata contro “The Donald” come se fosse un avversario e non un semplice competitore. L’ultimo appello accorato a non votare il candidato newyorkese giunge dagli intellettuali cattolici, fra cui George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II. Ad opporsi a Trump intervengono sfiducia, argomenti di tipo etico, immagine, rischio concreto di destabilizzazione. Arrivano pessimi segnali dal corpo professionale del Pentagono, sia militare che civile. Se “The Donald” dovesse vincere realmente e andare alla Casa Bianca si preannunciano migliaia di dimissioni nel ministero della Difesa, mentre non pochi alti ufficiali delle forze armate fanno trapelare alla stampa la loro intenzione di non obbedirgli in caso di ordini che vadano contro la legge (come il ripristino della tortura o l’uccisione dei familiari dei terroristi, due delle sparate più popolari nella campagna elettorale di Trump). Si tratta di prese di posizione senza precedenti, da parte di un corpo militare professionale e finora rigorosamente apolitico.

Dal personale diplomatico, finora, non arrivano reazioni così eclatanti, ma in una lettera aperta firmata dagli esperti della sicurezza nazionale vicini al Grand Old Party (Gop) si legge: “Le dichiarazioni stesse del signor Trump ci spingono alla conclusione che, una volta divenuto presidente, userebbe la sua autorità per rendere l’America meno sicura e ridurre il nostro prestigio nel mondo. Inoltre, il suo modo di vedere il potere presidenziale come un’arma contro i detrattori, costituisce un chiaro pericolo alle libertà civili negli Stati Uniti. Dunque, quali repubblicani convinti e leali, non possiamo sostenere un ticket presidenziale con Trump alla sua guida. Ci impegniamo a lavorare energicamente per impedire l’elezione di un uomo così inadatto a governare”. Per i 117 firmatari della lettera aperta, la campagna elettorale del miliardario ha già messo a rischio i rapporti con alleati degli Usa quali il Messico e il Giappone, alienato i partner musulmani, mandato segnali di debolezza alla Russia e alla Cina e lanciato messaggi contraddittori sul futuro della politica militare “… che vanno dall’avventurismo all’isolazionismo nello spazio di una sola frase”.

Per il partito dell’elefantino, insomma, si prospetta uno scenario da incubo: candidare un uomo che nessuno ha voluto, sottovalutato da tutti fino all’ultimo minuto e ora pronto a candidarsi per governare contro la volontà della sua stessa parte politica. E quindi, cosa pensano di fare? Per ora prevale una strategia della guerriglia elettorale, come quella messa in atto da Cruz: vincere poco, ma abbastanza da mettere i bastoni fra le ruote al grande avversario. Il ragionamento è puramente matematico: se Ted Cruz continua a vincere negli stati rurali, Marco Rubio si aggiudica almeno casa sua (la Florida) e John Kasich almeno lo stato che governa (l’Ohio), si impedisce a Trump di ottenere la maggioranza assoluta. Se nessuno arriva a luglio con i suoi 1237 delegati, vuol dire che si decide nella Brokered Convention. Dunque il candidato viene scelto dopo una triplice votazione dei delegati, l’ultima delle quali è quasi completamente aperta: la maggioranza qualificata dei grandi elettori può votare liberamente, dimenticando il proprio candidato di riferimento. Da un processo simile potrebbe ottenere la nomination anche un estraneo che non ha mai partecipato alle primarie. Chi potrebbe essere questo “cavaliere bianco”? Mitt Romney è il nome che circola di più, ma è troppo presto per dirlo.

È difficile capire, adesso, se questo percorso tortuoso farà bene al Gop (rafforzandolo) o sarà già la premessa per la vittoria di Hillary Clinton. Se il candidato dovesse emergere da un gioco politico, invece che dalle urne, il partito ne uscirebbe quasi certamente con le ossa rotte. Ma se vincesse Donald Trump?


di Stefano Magni