Trump-Sanders: facce della stessa medaglia

venerdì 4 marzo 2016


Smaltita la sbornia elettorale del giorno più lungo, quel “super-martedì” in cui si sono votate le primarie democratiche e repubblicane in ben 13 Stati degli Usa, si resta ad occhi aperti. Nelle elezioni che precedono le presidenziali si sono infatti registrate ben due anomalie, in entrambi i campi. A dire il vero erano anomalie previste (solo dalla settimana prima, però), ma costringono a una riflessione seria su cosa stia diventando l’elettorato degli Stati Uniti.

La prima è chiaramente Donald Trump: lungi dallo sgonfiarsi come una bolla mediatica qualunque, il miliardario newyorkese è ormai ben piazzato per la candidatura alla Casa Bianca. “Ben piazzato” non vuol dire certamente “arrivato”, perché su 1237 delegati necessari a vincere la nomination, per ora se ne è aggiudicati 316. Ma quei 316 sono quasi pari alla somma di quelli eletti per tutti gli altri candidati, fra cui i 226 di Ted Cruz, i 106 di Marco Rubio, i 25 di John Kasich e gli 8 di Ben Carson. Insomma, contrariamente a tutte le previsioni più “serie”, il popolo repubblicano sta veramente scegliendo “The Donald”.

L’altra anomalia è la mancata vittoria totale di Hillary Clinton in campo democratico. Bernie Sanders, dichiaratamente socialista, apertamente filo-sovietico in gioventù, pareva solo un candidato di facciata, ma così non è. Nel Super-Tuesday è riuscito a strappare alla Clinton ben 4 Stati su 13 e a risultare competitivo in tutti gli altri. Ha vinto complessivamente 386 delegati contro i 577 della Clinton, tenendo la partita ancora aperta. Ma più ancora che i risultati, è notevole il “popolo” che Sanders sta radunando attorno a sé. Lui, anziano e socialista d’altri tempi, ha raccolto un record di micro- donazioni e ammalia folle di giovani e giovanissimi, di “millenials” cresciuti negli anni 2000, studenti universitari freschi di college e determinati a trasformare l’America.

Trump è riuscito a risvegliare tutte le anime reiette della destra americana, gli esclusi, i maledetti, gli eterni perdenti. Ha incassato gli elogi del Ku Klux Klan e non li ha respinti come ci si sarebbe aspettato da un aspirante presidente. Ha raccolto consensi dal popolo dei “truthers”, quelli che credono alla teoria del complotto dell’11 settembre, che vorrebbero avere da lui una “verità” alternativa su quanto accaduto nel 2001, come il miliardario stesso ha lasciato intendere in più di una occasione. Ha incassato gli elogi di Vladimir Putin (che non dispiace ai paleo-conservatori e a non pochi libertari americani) e ha ringraziato e ricambiato. Ha raccolto almeno parte dell’eredità della “Ron Paul Revolution”, un popolo di libertari radicalmente anti-statalista che pure dovrebbe giudicarlo come un nemico, viste le sue posizioni in economia. E anche molti ex democratici delusi, ora, cambiano parte e votano Trump. Ma, soprattutto, raccoglie consensi fra i conservatori che si sentono traditi dall’azione dei repubblicani al Congresso, troppo inclini a compromessi con i liberal. Spopola fra tutti quegli americani, non necessariamente di destra, che hanno maturato, nel corso degli anni, una profonda sfiducia nei confronti del Congresso e ora chiedono un “uomo forte” al comando. Per il politologo Robert Kagan, neoconservatore, Trump è il “Frankenstein che il Grand Old Party ha creato e che ora è diventato abbastanza forte da divorare il partito”. Perché sette anni di retorica battagliera, di rifiuto di ogni compromesso, di denuncia senza mezzi termini delle politiche di Barack Obama avrebbero, secondo lui, incendiato gli animi dei conservatori. E l’esito di tutto ciò è “The Donald”, il più populista fra i candidati americani nella storia recente.

Sarebbe riduttivo, però, parlare solo del problema “The Donald”. L’altra anomalia è “The Bernie”. Il quale ripropone esattamente le stesse ricette di nazionalizzazioni, alta tassazione e livellamento sociale che sembravano ormai sepolte e screditate (almeno in America) sin dalla fine degli anni Settanta. Il suo vasto e giovane pubblico è talmente preso dalla sua ideologia da tentare di rieducare il dissidente russo Garry Kasparov. Il quale ha affidato alla sua pagina Facebook uno dei commenti più significativi su questa fuga a sinistra. “Mi gusto l’ironia dei fans di Sanders che danno lezioni di socialismo a me, ex cittadino sovietico, parlandomi delle sue glorie e del suo vero significato. Il socialismo suona bene nei discorsi ad effetto e sulle pagine di Facebook, ma vi pregherei di confinarlo a quegli ambiti. Perché nella pratica corrode non solo l’economia, ma lo stesso spirito dell’uomo, distrugge l’ambizione al successo che ha reso possibile il capitalismo moderno e ha emancipato dalla povertà miliardi di persone”.

Eppure il clamore mediatico del movimento Occupy Wall Street, i film di Michael Moore, l’aria che si respira nelle università di élite (fra cui Berkeley che continua ad essere il centro della “contestazione”), l’intellighenzia progressista nei grandi media e la continua marcia a sinistra di Hollywood, hanno infine prodotto questo: non più gente che pensa socialista (per far bella figura nei salotti buoni) ma lavora e vota da capitalista, ma giovani che aspirano realmente al socialismo quale alternativa radicale al sistema capitalista. È curioso come entrambe le anomalie americane, Trump a destra e Sanders a sinistra, vogliano sostanzialmente la stessa cosa: uno Stato forte e dirigista. Per Trump, i compiti del governo devono essere ampliati per la sicurezza nazionale, per fermare l’immigrazione, per proteggere le imprese americane dalla concorrenza straniera. Per Sanders devono essere ampliati per redistribuire la ricchezza, per dirigere i servizi essenziali, per trasformare l’industria energetica e dei trasporti in senso ecologista. Per entrambi, lo Stato centrale deve avere più potere, a danno dei privati e dei governi locali. È questa, purtroppo per i liberali, la novità che si staglia all’orizzonte in America. Sette anni di Obama, uno dei presidenti più statalisti nella storia degli Usa, hanno gravemente indebolito le difese immunitarie della libertà individuale.


di Stefano Magni