Tripoli, bel suol d’amor

venerdì 26 febbraio 2016


Sulla Libia tutto è chiaro. Spazzate via le fregnacce della retorica pacifista sulle immaginifiche primavere arabe, siamo all’inglorioso epilogo: la Libia verrà sezionata in tre pezzi. L’unità del Paese è già archeologia. Così l’orologio della storia ha riportato indietro le lancette a prima della conquista italiana del 1911-12.

Quando il Governo Giolitti strappò alla dominazione turca i possedimenti della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan, fece di quel gigantesco scatolone di sabbia una sponda sulla quale impiantare la civiltà. In realtà, furono soprattutto le pressioni interne della grande finanza, guidata dal Banco di Roma che aveva già consolidato a Tripoli i propri interessi commerciali, a spingere il Governo Giolitti alla guerra di conquista ai danni della Turchia. Nel tempo dell’espansionismo coloniale dell’Occidente anche l’Italia doveva avere il suo “posto al sole”. La guerra di Libia ne rappresentò lo spartiacque per il suo riposizionamento strategico sullo scacchiere internazionale. Roma, però, aveva agito con il consenso delle grandi potenze europee. Il ministro degli Esteri dell’epoca, il marchese Antonio Paternò di Sangiuliano, per conto di Giolitti aveva effettuato nell’estate del 1911 un’accurata ricognizione presso le cancellerie di Parigi, Londra, San Pietroburgo, Berlino e Vienna onde avere il nulla-osta all’intervento militare.

È trascorso un secolo, sappiamo intanto cosa sia accaduto, ma ora si torna indietro: le grandi potenze si riprendono ciò che a suo tempo avevano concesso all’Italia. Il famigerato “Piano B” di cui si vocifera in queste ore prevede la spartizione del cadavere libico in tre pezzi da affidare a tre Paesi “tutor”, rispettivamente: il Fezzan alla Francia, la Cirenaica alla Gran Bretagna e la Tripolitania all’Italia. Dovremmo essere contenti di questo epilogo? Certo che no. Per quanto la vituperata politica coloniale italiana prima e quella d’influenza discreta dopo abbiano fatto perno sull’intangibilità del territorio libico, ora tocca di accettare passivamente una tripartizione imposta solo per tacitare i famelici appetiti occidentali.

Roma, negli anni, ha salvaguardato i rapporti con tutte le anime di quella terra. Le relazioni con gli esponenti del governo insediato a Tobruk sono forti quanto quelle con i loro avversari di Tripoli. Perché abbandonarli? La volontà di potenza dei padroni del vapore europeo ci obbliga ad accontentarci di un osso eroso dalla presenza dell’integralismo islamico mentre essi banchettano con la polpa delle miniere del Fezzan e dei ricchi giacimenti petroliferi della Cirenaica. In politica tutto torna e anche le teste di rapa della “intellighenzia” nostrana dovranno arrendersi all’evidenza. Saranno i libri di storia a fare giustizia. Tra qualche decennio, a proposito del nostro presente, scriveranno: “Nel 2011 gli Stati forti d’Europa scatenarono in Libia una guerra contro gli interessi della debole Italia. Dopo la defenestrazione del capo del governo italiano in carica, Silvio Berlusconi, principale ostacolo alla loro politica espansionista, la sua sostituzione con un fantoccio posto alle dipendenze della Commissione di Bruxelles e l’eliminazione di Mu’ammar Gheddafi, il satrapo garante dell’influenza italiana sul Paese nord-africano, la guerra di conquista terminò nel 2016 con l’accordo di spartizione e la creazione di tre protettorati. Alla firma degli accordi presenziò il ministro degli Esteri italiano, il conte Paolo Gentiloni, al tempo noto per la sua proverbiale ostinazione a confondere la pace con la guerra e la vittoria con la sconfitta.

Quando queste pagine verranno scritte probabilmente non ci saremo, ma poco importa perché avremo avuto l’opportunità di averne vergato l’epitaffio: “Davanti a questo mare di Tripoli, radioso di accecanti basaltiche increspature, colò a picco, per l’imbelle mano del pavido governo romano, la santa cadrega d’Italia”.


di Cristofaro Sola