Libia: una nuova democrazia islamica

giovedì 28 gennaio 2016


In Libia, dopo la definitiva scomparsa del delegato delle Nazioni Unite Bernardino Leon degnamente sostituito dal tedesco Martin Kobler, finalmente, qualcosa sembra muoversi. Come noto, grazie alla fuga di mail tra Leon e membri del governo degli Emirati Arabi per la sua nomina a presidente dell’Accademia per gli Studi Diplomatici (Eda) con sede a Doha, sono venuti alla luce gli intrighi diplomatici che, sin dall’inizio della rivolta libica, hanno spinto Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi a sponsorizzare i “Gruppi islamici combattenti in Libia” (Al-Jama’a al-Islamiyyah al-Muqatilah bi-Libya) di appartenenza alla Fratellanza Musulmana, malgrado il mai chiarito assassinio dell’Ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi l’11 settembre 2012 perpetrato per mano di loro miliziani. Grazie all’uscita di scena di Leon, anche lo sconsiderato appoggio dell’ortodossia araba agli islamisti di Tripoli è venuta meno e, quindi, l’Europa, attraverso il Commissario Kobler, affiancato dal nostro buon ministro Gentiloni, ha potuto finalmente aprire alla democrazia l’intero fronte popolare libico, di cultura “tribale”.

Dopo lunghe e travagliate trattative ieri notte è stato trovato l’accordo tra il parlamento di Tobruch e quello di Tripoli. Dei trentaquattro parlamentari richiesti da Tripoli per la compagine di Governo, solo una quindicina entrerà a farne parte. A partire dal 29 gennaio, inoltre, inizierà la fusione delle forze di sicurezza (islamisti, tribali e generale Haftar) che è valutata la fase maggiormente sensibile ai fini dell’unificazione. Seguendo uno schema “tribale” suggerito dalle prime pagine dell’allora tanto acclamato “libro verde di Gheddafi”, sembra che lo schema di fusione sia destinato a funzionare.

La Libia nel suo insieme è ridotta alla “fame”, nel vero senso della parola: l’energia elettrica è erogata solo per qualche ora in quel che rimane delle grandi città; gli ospedali sono senza medicinali e anche i casi di urgenza vengono trattati in condizioni sanitarie di emergenza; mancano i generi di prima necessità e anche la farina è divenuta merce da mercato nero. La mancata produzione di petrolio, ormai ferma dal 2012, è forse l’artefice principale dell’accordo firmato dalle parti. Il totale collasso della struttura statale, in particolare in Tripolitania e in Cirenaica, ha portato alla crescita di movimenti islamisti jihadisti che hanno letteralmente messo in ginocchio l’economia locale di molte aree della Libia, Benghazi e Derna in prima linea. Quest’ultima caduta poi nelle mani di Daëch.

Ecco, quindi la necessità, se non l’urgenza d’intervento di forze europee a sostegno umanitario e di sicurezza, tanto sommessamente palesato soprattutto in sede ministero della Difesa italiano.

Forze speciali italiane e inglesi sono già in esigua occulta presenza in Libia, per ora solo a presidio delle istallazioni di rispettivo interesse energetico. Gli accordi che saranno messi in atto all’indomani dell’insediamento del Governo di Unità Nazionale libico prevedono che l’Italia possa inviare aiuti umanitari e logistici attraverso Bengasi. L’Italia dovrebbe coordinare anche l’apertura di “campi profughi” in Libia sotto l’egida delle Nazioni Unite, per il successivo smistamento verso l’Europa o il rimpatrio. Un’eventuale componente militare contro l’Isis, potrebbe essere incentrato il tutto su un intervento Nato. Ma il tutto è condizionato dalla formale richiesta che dovrà essere ufficializzata da parte del futuro Governo di unità nazionale di prossimo insediamento. Insomma, sembra che finalmente, tolti di mezzo gli americani e l’Arabia Saudita dallo scenario libico, qualcosa si muova in segno positivo verso una nuova democrazia islamica.


di Fabio Ghia