Che fine ha fatto la Primavera araba?

giovedì 28 gennaio 2016


Cinque anni fa, il 25 gennaio 2011, era un venerdì, giornata di preghiera e di riposo per i musulmani, migliaia di giovani egiziani invasero piazza Tahrir, “della Liberazione” in lingua araba, la piazza centrale del Cairo, per protestare contro il regime di Hosni Mubarak, per chiedere maggiore democrazia, rispetto dei diritti umani, libertà d’espressione, in altre parole un cambiamento di regime.

Quell’evento segnò l’inizio ufficiale di quella che le pagine di storia ricordano come la “Primavera araba”, l’ondata di proteste popolari, specie delle generazioni più giovani, che si espanse nel mondo arabo, dal nord Africa fino ai Paesi del Golfo e che portò alla fine dei regimi in Egitto, Tunisia e Libia e allo scoppio della guerra civile in Siria e nello Yemen.

Cronologicamente, fu in realtà il suicidio (il 17 dicembre del 2010), del giovane venditore ambulante di Tunisi, Mohamed Bouazizi, che intendeva protestare per le vessazioni del corrotto regime di Ben Ali, il fattore scatenante del movimento di proteste. La rapida diffusione di quel gesto drammatico sulle televisioni e i social network di tutto il mondo propagò da Tunisi il seme della protesta ai quattro venti del mondo arabo e ben presto, dopo Il Cairo, da Bengasi in Libia a Der’a in Siria, da Sana'a nello Yemen alla capitale giordana Amman e poi Manama, in Bahrein, fu un susseguirsi di proteste popolari, alcune pacifiche, altre, troppe, che sfociarono in scontri armati e massacri.

Cinque anni dopo, il bilancio di quella epica e drammatica stagione, che tenne tutto il mondo con il fiato sospeso, è radicalmente diverso, nei fatti, da un Paese all’altro, ma con un unico denominatore.

In Tunisia, il primo Paese dove esplose la protesta, la Primavera araba provocò la fine del regime, che era durato per oltre ventitre anni, di Zine El Abidine Ben Ali, che il 14 gennaio 2011 lasciò Tunisi per rifugiarsi in Arabia Saudita, dove tuttora vive con la famiglia in esilio. Nell’ottobre 2011 si svolsero le elezioni per l’Assemblea Costituente, le prime libere dopo decenni, che videro la netta affermazione del partito islamico moderato Ennahda, che entrò anche nel Governo. Il cammino costituente è stato però difficile, con tensioni anche violente tra i partiti e uomini politici dei diversi schieramenti ammazzati.

Il 26 gennaio del 2014 è entrata in vigore la nuova Costituzione, che indica nella forma di governo una Repubblica parlamentare con un Presidente della Repubblica ed un esecutivo con un Primo ministro e che contiene garanzie di libertà ed uguaglianza, principi di tutela delle tradizioni e nuovi diritti democratici. A fine ottobre del 2014 si sono svolte regolarmente le elezioni legislative che hanno visto il successo del partito moderato centrista, dove molti esponenti eletti vengono dalle fila del disciolto partito dell’ex Presidente Ben Ali. Anche il nuovo presidente della Repubblica è un ex ministro del vecchio regime. Nel 2015, Freedom House, nel suo rapporto “Freedom in the World 2015”, classifica la Tunisia come uno stato politicamente libero, unico caso nel mondo arabo. Ma non sono tutte rose in Tunisia; il Paese attraversa una grave crisi economica che ha portato nuove proteste in piazza negli ultimi mesi e dalla Tunisia sono partiti migliaia di giovani verso Siria, Iraq e Libia per arruolarsi nell’Esercito islamico. La Tunisia inoltre è stata obiettivo di gravi attacchi terroristi islamici nello scorso anno, da quello di marzo al Museo del Bardo di Tunisi, in giugno a Sousse e a novembre di nuovo a Tunisi contro la Guardia presidenziale; segno di un malessere crescente che preoccupa non poco le autorità.

In Egitto, la Primavera araba ottiene le dimissioni e perfino l’arresto di Hosni Mubarak, il Rais che aveva retto il Paese per quasi trent’anni. I Fratelli Musulmani, che erano stati perseguitati dalla polizia in Egitto e in altri Paesi arabi, arrivano al potere dopo le prime elezioni libere e il loro leader Mohamed Morsi diventa presidente della Repubblica. Ma nel luglio 2013, il generale Abdel-Fattah al-Sissi, che lo stesso Morsi aveva promosso capo di Stato Maggiore e nominato ministro della Difesa, depone il governo con un colpo di stato militare e arresta Morsi. Nel maggio del 2014, con una maggioranza di tipo “bulgaro”, Al-Sissi vince le elezioni e diventa Capo dello Stato. Il nuovo faraone d’Egitto ha ribadito e ampliato il modello disegnato dai suoi predecessori di prendere il potere con le armi e mettere a tacere ogni forma di dissenso. La Primavera araba a Piazza Tahrir sembra un ricordo lontanissimo nel tempo.

In Libia, le rivolte scoppiano contro Gheddafi nel febbraio del 2011 e portano a marzo, a seguito della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, all’intervento militare internazionale contro il regime, che determinerà la fine del Colonnello, che il 20 ottobre 2011 viene catturato e ucciso nella sua città natale di Sirte. Da quel momento la Libia è divenuta terra di scontri fra le numerose milizie tribali e nuova sede dei jihadisti del Califfato Islamico. Il 17 dicembre scorso in Marocco, i rappresentanti delle fazioni libiche, di Tripoli e di Tobruk, hanno firmato un accordo per formare un governo di unità nazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, che però stenta a nascere. E intanto Daech conquista terreno.

Nello Yemen, le proteste popolari della Primavera araba sono riuscite a deporre il presidente Ali Abdullah Saleh, ma cinque anni dopo, il Paese è lacerato da una guerra tra i ribelli Houthi sciiti, sostenuti dall’Iran, e il nuovo governo del presidente Hadi, sostenuto dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo. Migliaia sono gli Yemeniti morti e il Paese è inaccessibile e praticamente distrutto.

In Siria, le proteste scoppiate contro il regime di Bashar al-Assad nel marzo 2011 si sono trasformate in una feroce guerra civile, ancora in corso, che ha devastato il Paese seminando morte e distruzione e migliaia di profughi. Bashar al-Assad è ancora al potere grazie al sostegno incondizionato degli iraniani e dei russi; i ribelli sono sostenuti da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Nel frattempo, la Siria ha dato vita all’organizzazione dello Stato Islamico, che regna su quasi la metà del Paese.

E possiamo continuare a citare il Bahrein e le proteste della Primavera araba che si sono registrate anche in Arabia Saudita, Algeria, Marocco e Giordania. A parte qualche tiepida riforma economica, rivelatasi inefficace, la Primavera araba sembra non aver prodotto altro. Così, cinque anni dopo, l’entusiasmo e le speranze che quei giovani arabi avevano riscosso anche in Europa e nel resto del mondo, quasi si trattasse di un nuovo “68”, sono andate miseramente deluse.

L’ingiustizia sociale, la mancanza di libertà e i regimi autoritari sono tornati con nuovi volti, a volte anche peggiori di prima; l’erba cattiva non muore mai.


di Paolo Dionisi