Lo Stato islamico e la sua universalità

martedì 8 dicembre 2015


Iraq, Siria, Egitto, Libia, Nigeria. Ma anche Francia, Russia, Europa, Usa. Tutto il mondo occidentale. Questa è la vastità delle aree del mondo dove più si manifesta la pretesa penetrazione dello Stato islamico. La Francia gli ha dichiarato guerra, con una coalizione che si estende dalla Russia agli Stati Uniti, con il coinvolgimento di tutti gli Stati europei.

Ma chi è il nostro avversario? Perché ci combatte? Quali torti abbiamo maturato verso di lui? Quale minaccia rappresentiamo? Che tipo di vendetta dobbiamo subire per i nostri presunti torti? E perché? Perché ci vogliono terrorizzare?

Il conflitto (guerra?) è dai contorni ambigui e indefiniti, ma comprensibili se guardiamo bene. È un conflitto “asimmetrico”, si dice. Dove lo scontro non è ad armi pari, ma impari. Tra le parti in competizione non c’è infatti nessuna corrispondenza, né sul piano dei fronti territoriali, né sotto il profilo delle motivazioni.

Per i fondamentalisti del Jihad l’avversario deve essere colpito in ogni parte della Dar al-Harb (terre non islamiche) e non deve necessariamente vestire la divisa militare, perché avversari sono semplicemente tutti coloro che vivono e pensano da uomini liberi dell’occidentale.

La natura asimmetrica del conflitto è rimarcata, erroneamente, anche da alcune delle massime autorità istituzionali italiane che, pensando di svilire la natura e le potenzialità dell’Isis, gli negano i caratteri della statualità westfaliana, senza sapere che, così facendo, ne marcano proprio la sua tragica originalità, potenzialmente “universalistica”, che lo Stato islamico aspira ad avere. È di fondamentale importanza infatti sapere che, oltre ad avere un territorio, un popolo e un governo, l’Isis insegue la costruzione mitica di una comunità universale (Umma), concepita come entità indivisibile, dove si realizzano i fini più elevati dell’Islam, nell’ambito di una prospettiva escatologica di carattere collettivo, non confrontabile con i consueti fini degli Stati nazionali.

In vero, in base alle conclusioni tratte dagli stessi Fratelli Musulmani, l’Islam interpretato “in chiave di modernità” può essere praticato nel XX secolo soltanto nel contesto di un sistema politico islamico. Il richiamo allo Stato islamico evoca il ritorno alle prassi di governo dei primissimi anni, quelli incarnati direttamente dal Profeta e dai Califfi «ben diretti», dove la volontà di Dio era ben interpretata e la religione, la solidarietà sociale e l’etica dei governanti, erano in grado di realizzare il regime perfetto. Per far questo, l’imperativo categorico è la riscoperta della vocazione religiosa della politica, l’unica via da percorrere per ritrovare il buon governo e tentare d’invertire l’attuale condizione di crisi dell’intero mondo arabo.

È diffusissima, e non minoritaria, la convinzione che la ricostruzione dello “Stato islamico” delle origini, anche tramite il Califfato universale, rappresenti l’unica strada per indurre le masse ad agire in armonia coi loro interessi, in questo come nell’altro mondo. La crisi delle comunità politiche delle terre dell’Islam è, a parte le questioni di carattere economico, tutta qui, nella ricerca di un’identità oggi irriconoscibile. Nel deserto più assoluto delle identità statali, riaffiora il mito del Califfato, lo Stato islamico, un’identità comunitaria di tipo sovranazionale, capace in astratto di far convivere individui, gruppi e territori, attraverso una strada da percorrere a ritroso, che ha saputo mettere in pratica correttamente gli insegnamenti di Dio.

Questa strada di restaurazione è semplicemente quella già imboccata dal Profeta, quando ha attuato un ordinamento sorretto da un concetto religioso, ideologico, non territoriale o etnico. Su queste basi ideologiche risulta più chiaro il carattere asimmetrico dell’attuale conflitto, che vede una notevole parte del mondo musulmano inseguire un progetto universale, dal quale noi siamo esclusi. Così stando le cose è evidente che il conflitto tra i due mondi non si placa e non si risolverà nemmeno con la sconfitta dell’Isis, pur obbligata, perché dopo l’Isis ci saranno nuovi interpreti della Sharîʻa in chiave universalistica, finché non si farà strada, anche nel mondo arabo, il principio della piena separatezza della religione dalla politica. Ma, per questo, servono ancora molti anni, sicuramente decenni, probabilmente secoli.


di Guido Guidi