domenica 29 novembre 2015
Il grande gioco diplomatico seguito alla strage di Parigi sta ridefinendo le alleanze contro l’Isis (nuovo asse fra Russia e Francia, tensioni fra Russia e Turchia), sta costringendo la diplomazia internazionale a trovare nuove soluzioni per la Siria, ma lascia un tassello pericolosamente scoperto: la Libia.
Nella ex colonia italiana, a due passi dalle nostre coste, lo Stato Islamico è radicato ormai da un anno. Risale all’inizio del 2015 la strage di egiziani copti, quello dopo la quale l’Isis avvertì che la sua prossima tappa sarebbe stata l’Italia. Per le forze del Califfato, in effetti, lo “scatolone di sabbia” libico serve unicamente per compiere il grande balzo verso Roma, come si afferma ripetutamente in tutti i suoi proclami di guerra. Se per ora appare scongiurata la minaccia che lo Stato Islamico possa usare missili (catturati all’ex esercito regolare di Gheddafi) contro le nostre città, resta comunque forte il pericolo di infiltrazioni nel nostro Paese dalla Libia e ancor più forte il rischio che lo Stato Islamico possa ulteriormente consolidarsi. Per il momento controlla Sirte e Derna, anche se ha idealmente proclamato il possesso di tutte e tre le regioni libiche (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) trasformate in vilayet (province) del Califfato. Il numero dei combattenti jihadisti è stimato dal governo di Tobruk in 2500 nella sola Sirte, 4-5mila in tutto il Paese. Quel che preoccupa maggiormente il governo libico è l’arrivo di volontari da tutto il mondo islamico: la Libia rischia infatti di trasformarsi in un “magnete” per gli jihadisti. Arrivano dalla vicina Tunisia, dall’Algeria, dall’Egitto, dal Ciad, ma anche da paesi più lontani: Niger, Nigeria (dove sono inviati da Boko Haram, altro movimento affiliato al Califfato), Sudan, Yemen, oltre a jihadisti di ritorno dalla Siria. Tutto questo, ricordiamolo, avviene a un’ora di volo da Roma, a due passi dalla nostra costa.
Esattamente come in Siria e in Iraq, lo Stato Islamico si è consolidato in un contesto di guerra civile. Da due anni, ormai, la Libia ha due governi in lotta fra loro. Il governo eletto e riconosciuto dalla comunità internazionale è in esilio a Tobruk dopo un golpe dei partiti islamisti. Questi ultimi, insediatisi a Tripoli e riuniti nella coalizione Alba di Libia, ritengono di essere i legittimi rappresentanti della maggioranza dei libici. L’Onu ha tentato e fallito la mediazione fra i due governi, proponendo la costituzione di un esecutivo di unità nazionale. Un intervento militare di peacekeeping è stato escluso: solo un governo riconosciuto da tutti potrebbe infatti chiedere una presenza armata straniera sul proprio territorio. Di qui la necessità di un compromesso. Ma il mediatore, Bernardino Leon, dopo mesi e mesi di sforzi, lascerà l’incarico a fine mese senza aver concluso nulla. Un’inchiesta del quotidiano britannico Guardian ha rivelato, all’inizio del mese, che Leon fosse tutt’altro che imparziale: era in stretto contatto con gli Emirati Arabi Uniti (che lo avrebbero ricompensato con un prestigioso incarico e un lauto stipendio), principali sponsor del governo di Tobruk. Alcune e-mail di Leon scoperte dal Guardian sono abbastanza esplicite, come quella in cui il diplomatico spagnolo afferma di avere una strategia per “delegittimare del tutto” il governo di Tripoli. Ora è chiaro perché le fazioni che compongono Alba di Libia abbiano rifiutato di aderire alla proposta dell’Onu.
Se fra i due litiganti l’Isis gode, l’Italia soffre. Soffre tre volte: per mano dell’Onu, del governo di Tobruk e di quello di Tripoli. L’Onu ci ha chiesto un ruolo di primo piano per un eventuale intervento di peacekeeping, che però non c’è e non si materializzerà neppure nel prossimo futuro. In compenso, dopo la fine dell’incarico di Bernardino Leon ha nominato un diplomatico tedesco (e non italiano), Martin Kobler, al ruolo di mediatore. L’Italia riconosce solo il governo di Tobruk, ma mantiene un atteggiamento prudente nei confronti di quello di Tripoli, perché i nostri interessi energetici sono in entrambe le parti: il gas è sotto il controllo di Tripoli e il petrolio di Tobruk. Per questo il governo di Tobruk ci accusa di essere troppo morbidi con Alba di Libia e ha lanciato nei nostri confronti una minaccia non troppo velata all’inizio di questo mese. Il 2 novembre, infatti, ha accusato l’Italia di aver violato le sue acque territoriali. Ma le nostre navi più vicine si trovavano a 70 miglia dalla costa libica. Questa accusa si può comprendere solo se si considera ancora valido l’allargamento unilaterale delle acque territoriali libiche a 72 miglia dalla costa (invece delle 12 internazionalmente riconosciute), risalente ai tempi di Gheddafi e foriero di tutti gli incidenti navali nel Golfo della Sirte (inclusi i missili su Lampedusa del 1986). Di fatto, nel linguaggio sibillino della diplomazia libica, Tobruk sta minacciando l’Italia di riaprire la questione Sirte, se Roma non assume un atteggiamento più deciso a suo sostegno. Dall’altra parte della barricata della guerra civile, anche Tripoli ci minaccia con metodi e termini ancor più violenti. Proprio mentre da noi si celebrava il giorno dei defunti, a Tripoli veniva profanato e devastato il cimitero italiano (altra triste pratica riesumata dai tempi di Gheddafi). Il motivo è chiaro: il governo di Alba di Libia vuole essere riconosciuto ufficialmente dall’Italia.
La minaccia per il prossimo futuro è ancora peggiore ed è rivolta a tutta l’Ue, non solo a noi: Tripoli promette di aprire del tutto i confini ai profughi e agli emigranti, se non verrà riconosciuta. Se per ora sono sbarcati sulle nostre coste 140mila immigrati dall’inizio dell’anno, potrebbero arrivarne molti di più.
Considerando queste grigie prospettive, è difficile credere che la diplomazia europea non stia ancora ponendo la Libia in cima ai suoi pensieri. Ma l’Italia non prende l’iniziativa per prima, chi ci dovrebbe pensare?
di Stefano Magni