Senza i siriani non si risolve la crisi in Siria

venerdì 13 novembre 2015


Le austere sale dell’Hotel Imperial di Vienna, che duecento anni fa ospitarono il congresso che ridisegnò i confini dell’Europa dopo l’epopea napoleonica, hanno accolto pochi giorni fa i protagonisti del mondo di oggi in una conferenza, dedicata alla crisi in Siria, che molti hanno già definito storica. Al vertice hanno partecipato i ministri degli esteri dei Paesi, una ventina, che hanno interessi politici, regionali o strategici, nella soluzione della crisi, insieme ai rappresentanti di Onu e dell’Unione Europea. Fianco a fianco si sono ritrovati il Segretario di Stato Kerry con il ministro russo Sergey Lavrov, il ministro cinese Li Baodong e Mohammad Yavad Zarif, ministro degli Esteri iraniano. Per l’Italia è intervenuto il ministro Gentiloni.

Il documento in nove punti approvato al termine dalla conferenza chiede all’Onu di convocare, senza indugio, il governo siriano e l'opposizione per avviare un processo politico che porti a una governance credibile e non settaria, che elabori una nuova costituzione e conduca ad elezioni politiche. Le elezioni dovranno svolgersi sotto la supervisione dell'Onu e dovranno essere aperte alla diaspora e ai rifugiati. Alla Siria dovrà essere comunque garantita l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale e il carattere secolare del Paese e le istituzioni statali dovranno rimanere intatte.

L’incontro di Vienna, pur tra mille critiche e aspettative disattese, rappresenta un significativo momento di svolta e accende una flebile speranza per la pace; la soluzione della crisi non può però non passare dall’inclusione di tutti gli attori coinvolti nella guerra civile, in particolare dei Siriani. La maggior parte dei gruppi coinvolti nei combattimenti, la cui cooperazione appare indispensabile per porre fine al conflitto, non è infatti stata invitata a Vienna. I plenipotenziari stranieri che sono intervenuti al Vertice si sono ritenuti autorizzati a parlare anche in rappresentanza e per conto dei gruppi e dei movimenti siriani che proprio da loro traggono risorse, armamenti ed appoggi. Ma sul campo di battaglia, tra i vicoli distrutti e le macerie dei palazzi delle città siriane, le cose non stanno proprio così.

Il quadro della Siria in guerra richiama le onde d’urto provenienti dall’epicentro di un terremoto e può essere riassunto con tre cerchi concentrici. Nel cerchio più lontano dall'epicentro ci sono le grandi potenze, in particolare la Russia e gli Stati Uniti e alcuni paesi europei. Nel secondo cerchio troviamo gli attori regionali; dalla parte del regime di Assad si schierano l'Iran, il partito Hezbollah libanese e le milizie sciite irachene, con i ribelli invece la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar. Poi l’epicentro, con i gruppi siriani che si combattono sul terreno. Ci sono poi le altre componenti coinvolte nel conflitto, come le forze del Califfato, i gruppi curdi e alcune milizie più piccole, più legate peraltro ad interessi clanici o status quo 1 economici, che influenzano certamente strategie ed alleanze, ma non sono in ultima analisi parte del confronto tra il governo siriano e i gruppi ribelli, che ha dato origine nel 2011 al lungo e sanguinoso conflitto civile. Sul piano delle grandi potenze, ciascuna sembra giocare un proprio ruolo, dettato da interessi strategici piuttosto che dalla ricerca a tutti i costi della pace immediata.

Mosca, per esempio, non appare così determinata nell’impegnarsi per un accordo negoziato tra le parti. Putin e i suoi generali hanno calcolato che l’intervento militare, sul quale erano convinti che non ci sarebbe stata alcuna reazione “muscolosa” degli Americani e dei loro alleati, servisse a rafforzare il regime dell’alleato Assad ma soprattutto la posizione e gli interessi russi nella regione. Lo zar del Cremlino, in realtà, non avrebbe alcun tipo di impegno verso Bashar Al Assad; se alla Russia venisse garantito il controllo della base navale di Tartus, di importanza fondamentale per gli assetti strategici russi nel Mediterraneo e Medio Oriente, Putin, che non nutre sentimenti di particolare affetto verso Bashar - come racconta confidenzialmente più di un suo più stretto collaboratore – sarebbe felice di sbarazzarsi del dittatore di Damasco e di consolidare un’alleanza regionale con l'Iran, l’Iraq, la Siria e gli Hezbollah. Tuttavia, i principali partner regionali della Russia - Iran e Hezbollah in particolare - si sono impegnati con Bachar Al Assad, personalmente e politicamente. E’ difficile immaginare che uno di loro lo possa ora abbandonare.

Nonostante l’ambivalenza però, la politica russa è un modello di chiarezza e di coerenza rispetto alla posizione americana. Washington continua ad appoggiare l’opposizione moderata in Siria e sostiene da tempo che Al Assad debba lasciare il potere, perché ha perso ogni legittimità popolare; la partenza del dittatore però non deve avvenire subito ma alla data che sarà determinata dai negoziati. Alla Casa Bianca hanno ancora vivida la memoria della disastrosa esperienza in Iraq, quando con la partenza di Saddam Hussein crollarono improvvisamente le istituzioni sociali e di governo e il paese sprofondò nel caos e nella violenza, dalla quale a distanza di anni non si è ancora ripreso. E non vogliono cadere nello stesso errore anche in Siria. Uno dei principali risultati della conferenza di Vienna è che le potenze mondiali sono pronte per un accordo; Russia e Stati Uniti sono disponibili al compromesso, sulla partenza di Bashar come su altri punti. Washington è arrivata anche ad accettare di includere l'Iran tra i principali negoziatori della soluzione della crisi siriana.

I loro alleati regionali, tuttavia, sono meno interessati. L'Iran mantiene il suo impegno a preservare il regime. Arabia Saudita, Qatar e Turchia restano impegnati a rimuoverlo. Né Teheran né Riyadh appaiono interessati a compromessi al momento. Molto meno interessati al compromesso appaiono però i gruppi che combattono sul terreno e con loro bisognerà necessariamente trattare. Né le forze del regime, né quelle dell’opposizione sembrano avere incentivi a cercare compromessi su una formula politica. Il regime di Assad, con l’intervento militare russo, ha ritrovato un vigore e una determinazione che sembravano ormai perdute dopo i drammatici successi delle forze ribelli sul campo. I ribelli, da parte loro, continuano a ricevere equipaggiamenti ed armi dai paesi che li sostengono e riescono a mantenere una pressione militare sull’esercito regolare siriano.

Allo stato dei fatti, regime e opposizione credono di poter migliorare la loro posizione negoziale guadagnando terreno combattendo e solo quando saranno convinti di aver ottenuto il massimo risultato sul campo di battaglia accetteranno di deporre le armi; contro l’ostinazione dei capi delle due parti in conflitto, Mosca e Washington, e ancor meno le potenze regionali o le Nazioni Unite possono fare ben poco per costringere i Siriani ad un cessate il fuoco immediato e all’avvio di negoziati di pace .


di Paolo Dionisi