Silenzi e paure sulla tragedia nel Sinai

sabato 7 novembre 2015


E’ passata una settimana dall’esplosione in alta quota, sui cieli del Sinai, di un airbus russo, un volo charter che riportava a casa, a San Pietroburgo, 224 turisti ignari dopo una tranquilla vacanza a Sharm el Sheikh. Putin è rimasto chiuso nel silenzio più completo per 55 ore. Le televisioni russe non hanno cambiato programmazione nel giorno della disgrazia. Il presidente egiziano, Al Sisi, ha smentito l’ipotesi di un attentato, liquidandola come “propaganda”. Solo l’Isis ha parlato, mandando online ben due rivendicazioni e un video che gli esperti hanno subito identificato come un falso. Parlano anche i teorici della cospirazione, in Russia e non solo, descrivendo fantasmagorici piani segreti (che evidentemente solo loro conoscono) che coinvolgono i soliti noti: il senatore McCain, i neocon, il Mossad e pure l’ex presidente georgiano Saakashvili.

Dopo questa prima settimana di silenzi e informazioni surreali, si fa strada e diventa sempre più solida l’ipotesi più semplice, più logica: il Metrojet Airbus A321, può essere stato distrutto da una bomba, già caricata a bordo e programmata per esplodere entro la prima ora di volo da un gruppo jihadista egiziano. Ad affermarlo sono ora anche i servizi segreti britannici, che hanno nelle loro mani qualcosa in più di semplici congetture: intercettazioni di comunicazioni fra terroristi nel Sinai.

La penisola egiziana, al confine con Israele, era “terra di nessuno” dal 2011, percorsa da trafficanti e terroristi, tribù nomadi che facevano soldi con i rapimenti e jihadisti. Da quando il generale Al Sisi ha preso il controllo dell’Egitto, la prima regione di cui si è occupato è stata proprio il Sinai. Ha posto un freno al traffico illegale di armi verso Gaza, ponendo fine a decenni di fiancheggiamento (mai dichiarato) di Hamas: ha allagato i tunnel del contrabbando e incoraggiato lo sviluppo di una locale industria ittica, per rendere meno perduta una zona sottosviluppata. Ha tenuto impegnati i gruppi jihadisti con una serie di azioni militari, di cui si sa poco o nulla dalle nostre parti, ma che hanno avuto l’effetto di riportare sollievo sul confine israeliano e turismo sulle coste orientali egiziane. La presenza jihadista, tuttavia, è ancora viva: sono stimati in circa 1500 i guerriglieri egiziani che appartengono alla vasta galassia dello Stato Islamico. Si spiegherebbero così le smentite di Al Sisi, che tuttora continua a dichiarare quanto sia “troppo presto” prima di giungere a conclusioni sulla sorte dell’airbus: è il timore di non proiettare la necessaria immagine di “uomo forte”, di colui che ha domato il Sinai, riportandolo sotto il controllo del Cairo. E’ terrorizzante la sola idea che a Sharm e Sheikh, roccaforte del turismo sicuro, qualcuno abbia potuto infiltrare il personale dell’aeroporto per far saltare in aria un aereo. E sta già provocando le sue prime ripercussioni: Emirates, Lufthansa ed Air France, sin dal primo giorno dopo l’esplosione, hanno cambiato le loro rotte per non volare sul Sinai, ai turisti inglesi che tornano a casa sarà consentito il trasporto del solo bagaglio a mano. Se la paura torna fra i viaggiatori, l’Egitto perderà la sua unica vera risorsa.

A San Pietroburgo, lo strazio dei parenti e degli amici, nella vana attesa dei loro cari all’aeroporto, è stata seguita da un giorno di lutto nazionale. Ma anche qui, i due giorni di silenzio del presidente Putin e la continua prudenza con cui si affronta il caso dell’airbus, sono abbastanza comprensibili anche se poco giustificabili. Anche per Mosca è ancora “troppo presto” per parlare di terrorismo. A prima vista sembrerebbe strano, per un paese che non ha avuto alcun dubbio sugli attentati subiti nell’estate del 1999, quelli che diedero origine alla Seconda Guerra Cecena. Ma dalla fine di settembre è in corso l’intervento militare russo in Siria e questo cambia tutto. I raid aerei a sostegno di Assad sono il primo esempio di proiezione di potenza delle forze armate russe, la prima operazione fuori-area, lontana dai confini dell’ex Urss. La guerra è sostenuta da una campagna propagandistica senza precedenti, che coinvolge tutti, dai media (di Stato) alle scuole per rianimare il patriottismo. L’azione militare è però un successo nel momento in cui non comporta rischi e non provoca morti: è la regola aurea di ogni società moderna di un paese industrializzato, vale anche per la società russa, che pure è molto più abituata a subire caduti in guerra e in attentati di quanto non lo siano quelle europee occidentali. I 224 morti del Sinai, quasi tutti russi, potrebbero suonare come un monito grave: il terrorismo islamico può rispondere ai bombardamenti, con azioni devastanti. E lo può fare ovunque. La Russia, con il suo 15% di cittadini di fede musulmana, quasi 2 milioni dei quali vivono a Mosca, avrebbe tutte le ragioni per temere che la guerra lontana, quella in Siria, possa trasformarsi in un conflitto vicino. Molto vicino.


di Stefano Magni