La coscienza sporca dei boicottatori

sabato 26 settembre 2015


“Il banchetto di vini Israeliani alla Festa dell’uva di San Colombano al Lambro ci sarà”, annuncia con gaudio il sito dell’Associazione Amici di Israele. Ci è voluta una lettera aperta, un accorato appello di Ariel Shimona Edit, articoli su quotidiani locali e nazionali e tanta passione degli amici italiani dello Stato ebraico per permettere a chi andrà alla sagra di gustarsi anche l’aroma di quel vino orientale. C’era infatti il rischio che, per motivi di ordine pubblico, venisse espulso dalla festa, per decisione della giunta comunale. E da quando una bottiglia e i suoi espositori costituiscono un pericolo per l’ordine pubblico?

Almeno da quando anche una mostra può “provocare” una contestazione con urli, schiamazzi, insulti alla direttrice dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo (“Assassina! Assassina!”) Avital Kotzer Adari, come è avvenuto alla mostra Israele Oggi, inaugurata una settimana fa a San Colombano. Nella contestazione c’era anche Vittorio Fera, l’attivista italiano arrestato dagli israeliani in Cisgiordania, mentre filmava il fermo di un ragazzino palestinese. E anche su quell’episodio mediorientale grava, per lo meno, il sospetto che si trattasse di una trappola mediatica per Israele, considerato il numero di reporter, cameraman e fotografi presenti sulla scena e pronti a riprendere con immagini ad alta definizione un bambino fermato da un soldato (per non parlare del fatto che la famiglia palestinese coinvolta, quella degli Tamimi, con la sua ben riconoscibile bambina bionda, è presente in tutte le immagini di disordini in Palestina dal 2012 ad oggi).

La notizia di San Colombano non è l’eccezione, ma la regola. Capita, infatti, che il giorno dopo la gazzarra contro Israele Oggi avvenisse il giorno prima della manifestazione a Milano “No Expo, No Israel”, partita dalla Stazione Centrale con circa 200 attivisti dei centri sociali e anche qualche palestinese.

E, contemporaneamente, al capo opposto dell’Europa, anche la città di Reykjavik, capitale dell’Islanda, metteva al bando tutti i prodotti israeliani. Anche in quel caso, dopo un primo incidente diplomatico, la città ha deciso di correggere il tiro: saranno comunque messi al bando i prodotti israeliani, ma solo quelli provenienti da aziende che operano in Giudea e Samaria (Cisgiordania), in quanto territori “occupati”. Cosa c’entri l’Islanda con la crisi mediorientale non è dato saperlo. O meglio, lo si intuisce: la causa è l’ideologia della sinistra del paese scandinavo, che equipara Israele a una potenza occupante, a uno Stato dell’apartheid, una sorta di Sud Africa ebraico.

Il boicottaggio assume tante forme. Ad esempio, nell’estate appena trascorsa avevamo assistito all’esclusione dal festival reggae Rototom di Benicassim, Spagna, del cantante ebreo Matisyahu. Ebreo, ma non israeliano. Era stato escluso dal festival perché non aveva preso pubblicamente le distanze dalla politica dello Stato ebraico. Anche qui: marcia indietro dopo il fiume in piena di polemiche. Ma intanto il messaggio lanciato è chiarissimo: se sei ebreo ti accettiamo, ma solo se sei contrario a Israele e al suo governo.

In tutti i casi citati, i boicottatori hanno perso la loro battaglia. La prima lezione da trarre, in questo difficile mese di settembre, è che gli ebrei sono ancora rispettati, non sono stati gettati nella “spazzatura della storia” come vorrebbero i loro nemici. Ma si tratta di un rispetto fragile, di una linea difensiva sempre più sottile. Boicottare gli ebrei ricorda ancora a qualcuno che il primo a promuovere un boicottaggio analogo fu Hitler, prima di passare allo sterminio. Quando glielo ricordi, il boicottatore prova vergogna e arretra, magari alza gli occhi al cielo (“i soliti ebrei!”), ma alla fine rinuncia. Ma verrà il giorno in cui, morti tutti i reduci e i veterani della Seconda Guerra Mondiale, anche la memoria e il senso di colpa verranno meno.

Quel che manca del tutto, invece (ed è questo il vero problema per gli ebrei del XXI Secolo), è la coscienza che uno Stato ebraico, Israele, esiste, è indipendente, è legittimo, è riconosciuto dall’Onu e dal 1948 fa parte del “concerto delle nazioni”. Se questa consapevolezza fosse diffusa, a nessuno verrebbe in mente, neanche per sbaglio, di boicottare prodotti di un paese intero solo perché vengono da quel paese. A nessuno verrebbe in mente di andare a contestare una mostra, o una sagra di vini, solo perché sono esposti prodotti di un paese, solo perché vengono da quel paese. I professionisti dell’antisionismo hanno la risposta pronta: non contestiamo il popolo israeliano, ma il suo “regime” di Netanyahu. Però continuano a colpire i prodotti israeliani in quanto israeliani, ebrei in quanto “probabilmente filo-israeliani”. Forse loro stessi non lo realizzano, ma c’è tanto vecchio antisemitismo dietro questo modo di ragionare e di agire.


di Stefano Magni