sabato 16 maggio 2015
La Seconda guerra mondiale lasciò un’Europa divisa ed impoverita per le vaste distruzioni provocate dal conflitto. Tre grandi statisti, Schuman per la Francia, De Gasperi per l’Italia ed Adenauer per la Germania, pensarono di realizzare un’intesa fra paesi europei che non solo potesse evitare nuovi conflitti, ma soprattutto che potesse realizzare un’unione fra i popoli europei. Convennero di costruire l’Unione europea partendo da un’integrazione dei settori chiave. Iniziò così un lungo percorso che, oggi, conta un’Unione con 28 Paesi membri, di cui 19 dotati di una moneta unica.
Nel 1951 fu firmato il Trattato della Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), ideato da Jean Monet, cui aderirono, oltre a Francia, Italia e Germania (più esattamente, l’allora Repubblica Federale Tedesca), i tre Paesi del Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). Si partì dalla volontà sia di risolvere il maggior motivo d’attrito presente allora nell’Europa Occidentale, cioè il carbone tedesco della Ruhr, sia di trovare una soluzione alla spinosa questione della concorrenza nella produzione dell’acciaio, materiale strategico a quell’epoca. S’introdusse così la libera circolazione di questi due prodotti, senza diritti doganali né tasse.
Nella Conferenza di Messina dei ministri degli Esteri, nel giugno 1955 (che si tenne a casa dell’allora ministro degli Esteri, Gaetano Martino), i sei Stati della Ceca delinearono le tappe per la creazione della Comunità Economica Europea (il cosiddetto Mercato comune europeo) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica. Trattati che furono solennemente firmati a Roma nel marzo del 1957.
Questo processo d’integrazione europea fu ostacolato dalla Gran Bretagna che, come contraltare, nel 1959, si adoperò nel creare l’Efta, l’Associazione Europea di Libero Scambio, istituzione priva di qualsiasi ambizione politica. Era l’alternativa esplicitamente costituita per attrarre gli stati europei che non appartenevano alla Comunità Economica Europea. L’Efta fu formata, inizialmente, da sette Stati, cui, poco dopo, se ne associarono altri tre. Ma questo progetto fallì e poco alla volta parecchi di questi Stati chiesero ed ottennero di unirsi ai sei Stati fondatori della Comunità Economica Europea (poi diventata, Unione Europea).
Nel 1971 si svolsero i negoziati per l’ingresso della Gran Bretagna. I problemi più concreti erano l’integrazione dell’agricoltura inglese e il contributo britannico alla finanze comunitarie, per i quali la Gran Bretagna chiese ed ottenne, quando entrò nel 1973, un trattamento di favore. Il problema di fondo, tuttavia, era (e rimane ancor oggi) l’opposizione inglese a creare un’autorità sovranazionale, erodendo, per conseguenza, le proprie sovranità nazionali. Nel 1979 venne eletto, direttamente dai cittadini, per la prima volta, il Parlamento Europeo. Ma per opposizione degli Stati (in particolare, la Gran Bretagna) che non volevano cedere una parte della propria sovranità, il Parlamento Europeo continuò a non essere detentore di un vero potere legislativo.
I primi anni Ottanta furono dominati dalla crisi dei rapporti tra Gran Bretagna e la Cee. Margaret Thatcher pretendeva di dover contribuire in minor misura alle finanze della politica agricola comune. Vennero rinegoziati i contributi britannici alla Cee e Bruxelles s’impegnò, per evitare una rottura con la Gran Bretagna, a coprire parte del deficit inglese. Con la caduta della Thatcher l’opposizione britannica si smussò, ma non fu messa a tacere.
Il Trattato di Maastricht (firmato nel 1992) portò l’Unione Europea ad acquisire maggiori poteri rispetto a quelli che aveva la Cee. Vennero fissate, soprattutto, le tappe della politica monetaria, ma altri settori, come la politica estera comune (Pesc), rimasero solo a livello di auspicio e ciascun Paese continuò, sostanzialmente, a percorrere un proprio cammino. E ciò perché alcuni Stati, soprattutto la Gran Bretagna, si opposero a demandare alle istituzioni dell’Unione Europea parte della propria sovranità.
Dopo quindici anni dalla caduta del muro di Berlino, con la fine della divisione tra Europa occidentale ed Europa orientale, si ebbe l’ingresso nell’Ue di sette Paesi prima appartenenti al blocco sovietico. La Gran Bretagna sostenne che si procedesse subito al loro ingresso nell’Ue, contro il parere di altri Paesi che volevano attendere che venissero prima collaudate, da parte dei vecchi membri, le nuove istituzioni di Maastricht. Furono così accolti Paesi che venivano da esperienze molto diverse e che guardavano, per il loro futuro, più a Washington che a Bruxelles. Essi aderirono, soprattutto, per considerazioni di natura economica. Londra, così, da allora, non solo ha potuto contare, all’interno dell’Ue, sul loro appoggio per proseguire la sua politica europea non federalista, ma ha reso, allo stesso tempo, con il loro ingresso, meno omogenea l’Unione stessa.
E veniamo agli ultimissimi avvenimenti. Nelle elezioni politiche britanniche di pochi giorni fa, David Cameron ha messo al centro della sua campagna elettorale l’Europa. Si era impegnato, già dal 2013, per placare le richieste dell’ala anti-europea del suo partito ed anche per tagliare l’erba sotto i piedi dell’Ukip, che aveva fatto della “Brexit” la propria bandiera, a tenere un referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione Europea. La prospettiva del referendum avrà, se non altro, un grande merito: quello di far finalmente chiarezza sull’atteggiamento inglese nei confronti dell’Europa. Ciò suppone, ovviamente, che l’Europa chiarisca, anzitutto a se stessa, quali obiettivi finali vuole perseguire, cioè se intende trasformarsi da Unione Confederata in un’Unione Federata, con relativa cessione di sovranità in alcuni ambiti.
Pur tenendo conto che l’Ukip, il partito anti-europeo di Nigel Farage, avendo ottenuto solo un seggio (per effetto della legge elettorale uninominale), ma avendo conquistato, comunque, il 13 per cento dei voti validi, è diventato il terzo partito britannico, Londra, ora, non può più continuare ad fomentare un insieme di mini negoziati bilaterali e sotterranei con gli altri paesi europei; Londra, ora, dovrà, alla luce del sole e ufficialmente, proporre la sua visione dell’Europa. La quale non può più essere quella di trattare ad oltranza, sotto larvate minacce, per ottenere trattamenti di favore, come nel passato. Non può più chiedere di modificare a suo favore il proprio status all’interno dell’Unione Europea, né con l’aiuto benevolo di altri Stati cercare di ritoccare le regole che non sono a lei gradite. E poi, la società britannica, nel referendum, preferirà puntare su una specie di Brexit, illudendosi della propria specificità, e così andare incontro a un declino politico a livello internazionale, diventando una piccola potenza a fronte di una società globalizzata, ove interi Continenti diventano quasi degli Stati? Se è vero che l’Unione Europea ha bisogno della Gran Bretagna per costituirsi come l’unica Europa, la Gran Bretagna non può rinunciare all’Unione senza rinnegare gran parte del suo passato e senza, contemporaneamente, rinunciare ad avere un futuro ruolo nel mondo.
Inoltre c’è da tener presente l’obiettivo dichiarato della City e delle grandi imprese britanniche, che sostengono il leader conservatore e che vedono come un grave pericolo la possibilità di essere esclusi dai vantaggi del mercato unico europeo. Nei prossimi mesi, periodo entro il quale dovrebbe fissarsi la data del referendum, almeno a livello istituzionale, tutto dovrebbe apparire più chiaro. È vero che Londra è sempre più insofferente delle normative che arrivano da Bruxelles e vorrebbe tornare a potersi organizzare in proprio, ma dovrà pur decidere se vorrà partecipare in prima persona alla costruzione del futuro dell’Europa oppure no.
Anche perché, oggi, i problemi si sono aggravati e si chiede, da molte parti e con insistenza, una svolta all’Unione Europea. Non è più sufficiente tenere i conti in ordine, con eccessi di austerità, ma bisognerà passare a una politica di maggiore sviluppo per tutti, come, del resto, è scritto chiaramente nei Trattati europei e come è stato voluto esplicitamente dai padri fondatori. Consiste proprio in questo la maggiore “integrazione” politica dell’Europa! È questo il “progetto” comune di cui parlava Schuman subito dopo la Seconda guerra mondiale!
E poi c’è, oggi, più che mai, la gravissima emergenza dei migranti. I Paesi più ricchi devono essere meno egoisti di fronte al dramma di tante persone, coniugando in maniera più armoniosa i giusti interessi nazionali con il sostegno alle popolazioni coinvolte nell’emigrazione. Certamente non è facile, ma è l’unica strada percorribile.
La Commissione dell’Ue, per preparare una bozza di piano sull’immigrazione, al fine di non disturbare lo svolgimento delle elezioni politiche in Gran Bretagna, ne ha atteso la conclusione. Finalmente ora questo testo esiste. La parola chiave è solidarietà. Nei confronti dei migranti, certo, ma anche tra gli Stati membri. Dalla Commissione europea, infatti, avvalendosi del meccanismo dell’emergenza, arriva la proposta di una ripartizione in modo equo dei richiedenti asilo tra tutti e 28 gli Stati europei. Le quote di rifugiati destinati a ogni Paese dipendono da svariati parametri, come la ricchezza nazionale e il livello di disoccupazione. Certamente la redazione del testo della Commissione è una conseguenza delle migliaia di morti dello scorso aprile. Il fenomeno, però, è strutturale e non può essere affrontato come una risposta a una emergenza. Anche perché si è accertato che gli scafisti non sono solo dei criminali, ma dei professionisti del crimine, cioè ben organizzati e con molte risorse.
Ma le proposte della Commissione sulle quote hanno trovato delle forti opposizioni. Già Cameron, nel recente vertice straordinario dell’Ue sollecitato dall’Italia, si era detto pronto a mettere a disposizione una nave, ma… “nessuna disponibilità a farsi carico dei migranti sbarcati”. E il ministro britannico dell’Interno, Theresa May, è stato ancora più duro, scrivendo sul Times che i migranti dovrebbero essere respinti “con un programma attivo di ritorno”. Opposizione all’introduzione delle quote obbligatorie, viene espressa anche da altri stati europei, fra i quali si fanno notare, soprattutto, Sobotka, il premier della Repubblica ceca, e Fico, il premier della Slovacchia.
Oltre all’obbligo per tutti gli stati membri di accogliere gli immigrati presenti nel territorio dell’Unione, la Commissione ha deciso anche il via libera all’affondamento dei barconi, in un quadro di legalità internazionale. Sono proposti aiuti ai Paesi di origine e di transito, nonché è prevista la loro collaborazione, sia per contrastare i trafficanti, sia per i controlli alle frontiere. Sono programmate anche una revisione delle politiche di asilo e l’introduzione di una Blu Card a livello europeo, per l’immigrazione legale. E la Gran Bretagna, che ha secolari esperienze nei rapporti con i popoli che sono entrati tardi nel circuito dello sviluppo socio-economico, questa volta potrebbe certamente contribuire ad “affinare” questa carta sull’immigrazione. L’approvazione del testo definitivo da parte della Commissione, però, non basta. Sono necessari altri due passaggi decisivi, senza i quali questo testo non avrebbe nessun valore vincolante: al Consiglio (cioè da parte dei Governi europei) e al Parlamento Europeo (che già, in linea preventiva, si è espresso favorevolmente).
Solo se Consiglio e Parlamento operano con gli stessi intendimenti e non stravolgono il testo proposto dalla Commissione, cioè realizzando, all’interno, una progressiva integrazione politica fra i Paesi europei, e, all’esterno, una fattiva soluzione ai problemi dell’immigrazione, l’Unione Europea può aspirare ad esercitare un ruolo importante ed efficace nel Mediterraneo, in Medio Oriente e nel resto del mondo.
di Guido Fovi e Niccolò Dimivi