La tragedia di Bergdahl

sabato 28 marzo 2015


Il brutto caso di Bowe Bergdahl inizia con una buona notizia. Il 31 maggio 2014 viene annunciata la liberazione del sergente Bowe Bergdahl, nelle mani dei talebani, in Afghanistan, dal 30 giugno 2009. A casa sua si preparano i festeggiamenti. Ma subito dopo, la vicenda, che sembra un lieto fine di una lunga epopea di un ostaggio, assume subito tinte fosche e tristi. La festa per il ritorno non si fa più. Il sergente, appena liberato e rimpatriato, viene assegnato a un altro incarico d’ufficio, a San Antonio, Texas, affiancato da un tutore che ne cura il reinserimento nella vita lavorativa. Non vuole avere contatti con i suoi familiari, che sente solo al telefono. Che cosa è successo?

Una doppia tragedia. La prima è la sua lunga prigionia, che evidentemente sta continuando nella sua mente. Bergdahl è stato catturato in Afghanistan dai miliziani del gruppo Haqqani (legato ad Al Qaeda), a Yahya Kheyl, nella provincia di Paktika, il 30 giugno 2009. Tenta subito la fuga e viene catturato dai suoi stessi rapitori. Poi ci prova ancora, finisce esausto, mezzo linciato dalla squadra dei sequestratori e riportato nel loro rifugio. Qui inizia la sua agonia. Incatenato a un letto, bendato, impossibilitato a muoversi, anche solo a sedersi, nutrito con il minimo indispensabile, resta in questo stato di morte in vita per tre mesi filati. Solo quando è completamente esausto e piagato, ha la possibilità di cambiare posizione, pur restando legato al letto. In inverno gli danno la possibilità di stare in piedi, ma con mani e piedi legati alle catene. Non gli consentono di corpirsi per mesi, esponendolo al freddo. Con l’arrivo del nuovo anno, viene “promosso” a una nuova forma di carcerazione: una gabbia. Ovviamente, non fidandosi nemmeno delle sbarre di ferro, i suoi polsi restano ammanettati. Fossero solo l’immobilità e l’inumanità degli spazi in cui è rinchiuso: ci sono anche le percosse continue, le frustate con un cavo di rame, gli insulti continui e la tortura psicologica permanente. “Tutti i giorni mi dicevano che mi avrebbero ammazzato, poi dicevano che mi avrebbero liberato in giornata, poi che sarei rimasto qui per altri trent’anni”. Bergdahl perde la cognizione del tempo, è costretto a passare settimane intere al buio, altre settimane intere sotto la luce, giorno e notte. “Non sapevo niente di quel che accadeva oltre la porta” del suo luogo di prigionia. In compenso i talebani del gruppo Haqqani lo sottoponevano al loro continuo lavaggio del cervello, facendogli vedere tutti i loro video di propaganda. La tortura è durata cinque anni. Bergdahl, nella sua lettera aperta in cui ricorda l’inferno vissuto, dice di aver passato il peggio nei primi due anni, poi condizioni gradualmente migliori dal terzo anno in avanti. Dai suoi 23 ai 28 anni, mentre i suoi coetanei americani finivano l’università, si facevano una famiglia e iniziavano le loro carriere lavorative, lui era in catene, al buio, o sotto una luce costante, in gabbia o legato a un letto, frustato, insultato, minacciato. Il suo è un diario piccolo ma efficace, che dovrebbe essere letto da quanti denunciano la barbarie americana a Guantanamo e Abu Ghraib, dimenticando però il nemico che gli americani sono costretti a combattere da 14 anni.

Ma con la sua liberazione inizia la sua seconda tragedia, che non è solo individuale, ma diventa uno scandalo nazionale. Preoccupato per le condizioni di salute del prigioniero americano, che potrebbe morire presto (stando a fonti locali attendibili) il presidente Obama si preoccupa personalmente di risolvere il caso, salta il parere del Congresso e decide, in modo molto poco ortodosso, come è suo solito, di fare uno scambio di prigionieri. Cinque alti dirigenti del regime talebano, internati a Guantanamo, i “Taliban Five”, vengono liberati e rimandati in Afghanistan. E’ la prima volta, dall’inizio del lungo conflitto, che gli Usa accettano di trattare con i terroristi. I repubblicani protestano doppiamente: per non essere stati consultati al Congresso (come Obama avrebbe dovuto fare, per legge) e per aver accettato un compromesso con i terroristi, creando un precedente pericoloso. Ma fin dal primo giorno della liberazione di Bergdahl, inizia a girare una voce insistente: forse il sergente preso in ostaggio aveva abbandonato la sua postazione per disertare. Non era in missione quando era stato catturato dagli Haqqani. Ed ecco perché il suo rientro in patria è avvenuto in silenzio, senza feste né clamore. Ora è arrivata una “mezza conferma” anche ufficiale di questo sospetto: la giustizia militare americana ha raccolto abbastanza indizi da imbastire una causa contro il sergente, incriminandolo per diserzione. Subito inizia la fila dei “te l’avevo detto”, si scoperchiano particolari imbarazzanti della vita di Bergdahl prima della sua cattura: la sua bocciatura per motivi psicologici al corso per entrare nella Guardia Costiera, un suo periodo mistico passato in un tempio buddista, il suo ingresso nell’esercito e la promozione a sottufficiale in un periodo (il 2008) in cui l’esercito aveva disperato bisogno di uomini, i sospetti che troppo giusto non fosse, l’idea che fosse già impazzito prima della cattura. E la battaglia politica diventa incandescente. “Non avrei mai fatto lo scambio di prigionieri”, dichiara Mitt Romney, ex candidato repubblicano alla presidenza. I militari non commentano, ma silenziosamente aumenta la loro sfiducia nella Casa Bianca.

Una tragedia doppia, dunque. Comunque se ne esca, qualunque parte in causa ne uscirà con le mani sporche, una vicenda simbolica di un grande esercito che sta attraversando una fase di grande crisi morale.


di Stefano Magni