L’Isis in Libia: siamo tutti pacifisti

mercoledì 18 febbraio 2015


L’Italia ha l’Isis alle porte e, nonostante ciò, il governo non ha ancora espresso una linea chiara sul da farsi. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva espresso la possibilità di un intervento armato “sotto l’egida dell’Onu”, il ministro della Difesa Pinotti aveva parlato anche di “5000 uomini” da poter impiegare. Ma le successive dichiarazioni del premier Matteo Renzi suonano come una (almeno parziale) marcia indietro. L’intervento non è escluso, ma si farà solo nell’ambito di una missione internazionale, non se la decidiamo noi, ma se la decide l’Onu. “Questo non è il tempo dell'intervento militar. La visione del governo è una sola - ha detto il premier in un'intervista al Tg5 - ossia attendere che il Consiglio di sicurezza Onu lavori un po' più convintamente sulla Libia. La comunità internazionale, se vuole, ha tutti gli strumenti per poter intervenire. La forza delle Nazioni Unite è decisamente superiore a quella delle milizie radicali". Devono essere gli altri, dunque, a decidere sulla sicurezza dell’Italia. Mentre Renzi pronunciava queste parole, in acque libiche, a 50 miglia da Tripoli, una motovedetta della Guardia Costiera italiana veniva minacciata coi kalashnikov da un gruppo di scafisti e doveva restituire loro le imbarcazioni sequestrate. Secondo il ministro Lupi l’episodio costituisce “un fatto allarmante, che segna un ulteriore salto di qualità” degli scafisti.

A dire il vero costituisce più un fatto allarmante che un nostro equipaggio militare sia disarmato e debba arrendersi alle richieste di un gruppo di predoni. L’episodio è sintomatico del livello di impreparazione dell’Italia alla crisi libica e di sottovalutazione estrema del pericolo di uno scontro. La parziale marcia indietro di Renzi, rispetto alle prime dichiarazioni dei suoi ministri, oltre a denunciare uno scarso lavoro di squadra, è dovuta soprattutto alla presa di coscienza che l’Italia non si trova nelle condizioni di gestire un intervento militare con le sole proprie forze. Per mancanza di fondi e a causa dei ripetuti tagli degli ultimi anni, la maggior parte delle truppe che potrebbero eventualmente, combattere una guerra, non effettuano più addestramenti. Aerei ed elicotteri sono carenti di pezzi di ricambio. Il nerbo delle nostre truppe è già impiegato in missioni di pace, in Libano soprattutto. Oppure è in patria, per pattugliare le strade, o addirittura raccogliere la spazzatura (nella Terra dei Fuochi, i soldati impiegati sono passati da 100 a 200 nell’ultima settimana). Fra tutte le priorità degli ultimi tre governi, le forze armate sono sempre state agli ultimi posti.

Ancor più dello stato di impreparazione militare di questo periodo, conta l’opposizione politica e ideologica a qualunque tipo di guerra, anche strettamente difensiva, da parte di Movimento Cinque Stelle, Sel e una parte dello stesso Pd, che si opporrebbero a missioni oltre-mare. I messaggi su Twitter di Sel sono abbastanza eloquenti: il partito di estrema sinistra considera la crisi libica come il fallimento della precedente ingerenza umanitaria e dunque considera un prossimo intervento come foriero di ulteriore disordine. Il Movimento Cinque Stelle è sostanzialmente sulla stessa linea, ma più che a Grillo e al suo nutrito gruppo di parlamentari, o al partito che siede alla sua sinistra, Renzi teme che questa posizione possa provocare una lacerazione della sua ala sinistra. A far da padrone, poi, è ancora il famigerato Articolo 11 della Costituzione, quello de “L’Italia ripudia la guerra”, interpretato in senso strettissimo: non solo la ripudia come strumento di aggressione o come soluzione alle controversie internazionali, ma sempre, anche in caso di partecipazione ad un’azione internazionale, anche in caso di autodifesa. Il dibattito dell’opinione pubblica più politicizzata, in questi giorni, poi, è ancor più deprimente. Si va dalle solite teorie del complotto, secondo cui l’Isis sarebbe stata creata dagli Usa (tesi ripresa anche da insospettabili e serissimi quotidiani proprio in questi giorni) alla classica domanda retorica del “tu personalmente ci vuoi andare a combattere in Libia?”. A cui l’ascoltatore o utente medio risponde ovviamente “no”, anche se è favorevole all’intervento militare. (E come se non esistesse più, banalmente, la divisione del lavoro: tutti sono contro il cancro, ma pochi sono capaci di operarlo).

Oggi siamo tutti pacifisti, dunque. Ma se l’Isis, dalla Libia, dovesse colpire realmente l’Italia? Sarebbe un test inquietante e interessante. Finalmente potremmo rispondere con coscienza alla domanda che gli israeliani ci pongono da tempo “cosa fareste voi se foste al posto nostro, sotto tiro dei terroristi?” Un colpo dell’Isis, annunciato da mesi dai loro proclami, sarebbe il prodotto del nostro attendismo, della nostra indecisione. Sarebbe un caso scuola di come l’appeasement genera mostri. Speriamo solo di non dover mai assistere a una simile dimostrazione.


di Stefano Magni