Siamo in guerra!

martedì 17 febbraio 2015


Una dichiarazione di guerra in genere è un atto unilaterale, per avere efficacia non necessita della ratifica della controparte. Da qualche tempo il califfo Al-Baghdadi va ripetendo che vuole conquistare Roma. Ieri l’altro, tutto il mondo ha visto un video orrendo nel quale i combattenti islamici del fronte libico dell’Is hanno trucidato barbaramente 21 lavoratori egiziani di religione copta. Il filmato ha un destinatario: la nazione della Croce. Se non si vuole essere a tutti i costi ciechi e sordi bisogna riconoscere un’elementare evidenza: siamo in guerra.

I nostri governanti possono anche decidere di snobbare la minaccia. Possono fingere di credere che si tratti di una trovata propagandistica di un gruppo di feroci criminali, ciò però non risolve la questione di fondo: se qualcuno dichiara di volere invadere uno Stato sovrano, quel paese che fa? Dopo anni di errori micidiali in politica estera, dettati dal fanatismo ideologico della sinistra terzomondista, il nostro governo deve porre all’ordine del giorno della sua agenda politica la difesa in armi della nazione, ricordando che i confini dello Stato non si fermano alle coste siciliane. Anche l’arcipelago delle Pelagie è territorio italiano. La precisazione non è peregrina. In queste ore tutti i rappresentanti della maggioranza, non potendo più nascondere la verità al paese, si aggrappano alla foglia di fico delle risoluzioni Onu. Si tratta di un patetico stratagemma studiato per ritardare l’inevitabile, sperando che in attesa del via-libera dal Palazzo di Vetro avvenga chissà quale miracolo che risolva la situazione senza che ci si sporchi le mani.

Intendiamoci. La pronuncia del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva un senso fino alla scorsa settimana quando la crisi era circoscritta al contenzioso tra le opposte fazioni in lotta all’interno della Libia. Oggi lo scenario è radicalmente cambiato. In peggio. Sul terreno sta prevalendo una forza armata che si richiama a uno Stato esistente, l’Is. La presa di Tripoli potrebbe determinare, nei piani del califfo del terrore, la scelta tattica di aprire il secondo fronte di guerra sulle sponde del Mediterraneo. Perché? La concentrazione di forze della coalizione dei paesi occidentali e mediorientali che si prepara a sferrare l’attacco di terra alle roccaforti dell’Is dislocate a cavallo tra la Siria e l’Iraq, potrebbe aver ispirato la manovra diversiva. Per Al-Baghdadi e i suoi tagliagole provocare la guerra in Libia potrebbe risultare funzionale a diminuire la pressione sul primo nucleo territoriale consolidato dello Stato islamico.

Occhio, dunque, a cosa può accadere alla piccola isola di Lampedusa che, per le sua collocazione a mezza strada tra la terraferma italiana e la Libia, potrebbe essere l’ obiettivo di un attacco missilistico di medio raggio. In linea di principio non si può escludere anche un blitz dei combattenti islamici sull’isola, magari aiutati dalla confusione dei barconi dei migranti che stanno affollando quel tratto di mare. La ministra Pinotti si dia una mossa e decida di porre immediatamente in sicurezza l’arcipelago e i suoi abitanti. Il passo successivo è l’intervento italiano in territorio libico per neutralizzare l’avanzata jihadista. Non è facile accettare l’idea di essere in guerra, lo comprendiamo.

Tuttavia sarebbe da pazzi fingere che il problema non esista. Il governo faccia rapidamente i suoi passaggi in Parlamento e presso gli alleati della Nato dai quali è giusto attendersi il pieno sostegno in forza dei patti sottoscritti. Renzi avrebbe già dovuto farlo da un pezzo. Non l’ha fatto e ha sbagliato. Non perseveri nell’errore. Soprattutto non stia troppo a riflettere sul dopo. Ci sarà tempo per pensarci visto che in Libia, una volta approdati, ci dovremo restare un bel po’. Prima si colpisce e poi si dialoga. È una buona regola che ha sempre funzionato.


di Cristofaro Sola