C’è un Califfato anche in Afghanistan

martedì 10 febbraio 2015


Un drone della Nato ha ucciso il mullah Abdul Rauf, un ex detenuto di Guantanamo tornato in Afghanistan per continuare a combattere la guerriglia contro gli Alleati. Abdul Rauf non è solo uno dei tanti casi di recidiva di Guantanamo, che fa presagire cosa avverrà dopo la chiusura definitiva del campo di prigionia. Era anche il principale leader dello Stato Islamico (il Califfato) in Afghanistan. La vero notizia, infatti, è proprio questa: c’è una “provincia” del Califfato anche in Afghanistan, in quello che Al Baghdadi e i suoi chiamano con l’antico nome arabo di Khorasan. In Siria una brigata jihadista, che raccoglie molti combattenti stranieri, ha il nome di Khorasan. E in Afghanistan c’è chi sta combattendo per edificarlo realmente.

Abdul Rauf era stato catturato all’inizio della guerra afgana, nel 2001 e internato a Guantanamo fino al 2007. Poi, una volta rientrato, si era di nuovo unito ai Talebani, sotto le insegne bianche del Mullah Omar, cioè del principale alleato locale di Bin Laden. Dal 2014, come in tutte le regioni della galassia radicale islamica, Al Qaeda ha perso fascino a vantaggio del Califfato, cioè del primo concreto esperimento di Stato jihadista funzionante. A questo fascino, a quanto risulta, non ha saputo resistere il talebano Abdul Rauf, che ha rotto il suo patto di alleanza con il Mullah Omar e ha fondato la sua milizia ultra-radicale, con la bandiera nera del Califfo. Dalla provincia di Helmand, nell’occidente afgano, ha iniziato a operare e reclutare miliziani, sia per combattere contro i regolari afgani che contro i Talebani, che al suo confronto apparivano come dei “moderati”. La rete del Califfato del Khorasan non si limita al mullah Rauf. Il leader e l’organizzazione principale dei seguaci di Al Baghdadi rispondono a un altro radicale islamico, Saed Khan, che opera nell’Orakzai, regione tribale del Pakistan.

Con l’eliminazione mirata di Abdul Rauf, la Nato ha solo tagliato uno dei rami del Califfato in Asia meridionale. Ma non è che un inizio. A parte il tronco centrale che è quello in Siria e Iraq, le altre ramificazioni dello Stato Islamico iniziano ad allungarsi in tutto il mondo musulmano. O meglio: in ognuno degli Stati falliti del mondo musulmano. La principale succursale è quella della Nigeria, dove Boko Haram ha giurato fedeltà al Califfo e ha iniziato ad occupare militarmente una regione grande, all’incirca, come la Lombardia. L’esercito nigeriano si è dimostrato troppo corrotto e infiltrato dagli jihadisti per potere reagire efficacemente. Il governo della Nigeria, finora, ha rifiutato ogni aiuto esterno per far fronte a questa minaccia. La secondo propaggine importante del Califfato è nel Sinai, una penisola teoricamente parte dell’Egitto, ma fuori controllo, ormai, dal 2011. L’ascesa al potere di Al Sisi dovrebbe consentire all’esercito egiziano di agire più liberamente nella penisola, ma ci vorrà tempo. Un altro Stato fallito in cui il Califfato si è inserito facilmente è la Libia. In questa landa di nessuno, dove ogni tribù ha la propria milizia e il governo non ha il controllo del territorio, lo Stato islamico ha istituito addirittura tre province, una a Barqah (in Cirenaica), una nel Fezzan (l’estremo Sud) e l’altra, addirittura, nella capitale Tripoli, dove miliziani jihadisti hanno attaccato l’hotel Corinthia, due settimane fa, uccidendo sia libici che stranieri.

Combattere il Califfato richiederà un impegno sempre maggiore e su più fronti. Per ora, a combattere sul serio sembra essere solo la Giordania e unicamente (per motivi geografici) sul fronte principale, in Iraq e Siria. Dopo la diffusione del video dell’uccisione di Moaz al Kasasbeh, il pilota bruciato vivo in una gabbia il 3 gennaio scorso, re Abduallah II ha ordinato una serie di raid aerei. L’intensa campagna di bombardamenti ha portato alla distruzione di almeno una sessantina di basi del Califfato. Secondo fonti giordane, sarebbe stato colpito almeno il 20% del potenziale militare dello Stato Islamico. Non è da escludere neppure un intervento di terra. Lo chiedono i giordani e non lo negano gli americani, che ventilano ufficialmente l’ipotesi di inviare un contingente di terra oltre alle forze aeree già operative.


di Stefano Magni