martedì 3 febbraio 2015
In un discorso ampiamente elogiato, tenuto il 1° gennaio all’Università Al-Azhar del Cairo, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si è rivolto alla leadership religiosa del paese, dicendo che è ormai giunto il momento di riformare l’Islam. Sisi ha ottenuto il plauso occidentale per questo, tra cui una nomination per il Premio Nobel per la Pace, ma io nutro delle riserve sul suo discorso.
Per cominciare, indipendentemente dalla bontà delle idee di Sisi, nessun politico – e soprattutto nessun uomo forte – ha modernizzato l’Islam. In Turchia, le riforme di Atatürk sono state sistematicamente invertite. Dieci anni fa, anche re Abdullah II di Giordania e il presidente pakistano Pervez Musharraf tennero dei discorsi interessanti sulla “vera voce dell’Islam” e sulla “moderazione illuminata” che subito sparirono nel nulla. Sì, è vero, le riflessioni di Sisi sono forti, ma egli non è un’autorità religiosa e, con ogni probabilità, anche queste considerazioni spariranno senza lasciare traccia.
Per quanto riguarda il contenuto, Sisi ha elogiato la fede islamica e ha focalizzato l’attenzione su ciò che lui chiama fikr, un termine che letteralmente significa pensiero, ma in questo contesto vuol dire idee sbagliate. Il rais si è lamentato del fatto che le idee sbagliate, senza però specificare quali fossero, sono state sacralizzate e che la leadership religiosa non osa criticarle. Ma Sisi le ha criticate e in un arabo colloquiale davvero insolito per discutere di simili argomenti, ha detto: “È inconcepibile che le idee sbagliate che noi riteniamo più sacre facciano in modo che l’intera umma [la comunità musulmana] sia fonte di preoccupazione, pericolo, morte e distruzione per il resto del mondo. Questo non è possibile!”.
Tuttavia, è esattamente questo ciò che è accaduto: “Si è arrivati al punto che i musulmani si sono inimicati il mondo intero. È concepibile che 1,6 miliardi [di musulmani] vogliano uccidere il resto della popolazione mondiale di 7 miliardi, per far prosperare i musulmani? Questo è impossibile”. Sisi ha continuato, strappando deboli applausi ai dignitari religiosi seduti davanti a lui, invitandoli a promuovere “una rivoluzione religiosa”. A parte questo, la comunità musulmana “viene lacerata, distrutta e va all’inferno”. Complimenti a Sisi per le parole dure utilizzate per affrontare questo problema; la sua franchezza è in netto contrasto con il linguaggio incomprensibile dei suoi omologhi occidentali che hanno la pretesa di dire che l’attuale ondata di violenza non ha nulla a che fare con l’Islam. (Delle numerose osservazioni clamorosamente errate, la mia preferita è quella di Howard Dean, l’ex governatore del Vermont, che ha reagito al massacro al giornale Charlie Hebdo dicendo: “Ho smesso di chiamare queste persone terroristi musulmani. Sono musulmani quanto me”.)
Il rais, però, non ha fornito dettagli sulla rivoluzione che desidera; cosa potrebbe avere in mente? Contrariamente a quanto dicono i suoi ammiratori, credo che Sisi difenda una versione edulcorata dell’islamismo, che delimiti la piena applicazione della legge islamica (la Shari'a) alla sfera pubblica. Diversi indizi rivelano che il presidente egiziano è stato un islamista. Egli era un musulmano praticante che a quanto pare ha imparato a memoria il Corano. Il Financial Times ha scoperto che sua moglie porta l’hijab (il velo) e una delle sue figlie indossa il niqab (il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi e le mani). Il presidente dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi, ha nominato Sisi suo ministro della Difesa proprio perché vedeva nell’allora generale un alleato.
Nel 2005-2006, quando studiava in Pennsylvania, il rais scrisse una tesina che argomentava a favore di una democrazia adattata all’Islam che “assomiglierebbe poco” al suo prototipo occidentale ma che “avrà una forma propria e dei tratti religiosi più marcati”. La sua versione di democrazia non separava moschea e Stato ma si fondava sui “precetti islamici”, implicando l’obbligo per gli organi governativi di “prendere in considerazione i precetti islamici nello svolgimento delle loro funzioni”. In altre parole, la Shari'a ha la meglio sulla volontà popolare.
In questo stesso scritto, Sisi si è in parte schierato con i salafiti, quegli islamisti dalla barba lunga o che indossano il burqa e che cercano di vivere come Maometto. Il rais ha descritto il califfato dei primi tempi non soltanto come “la forma ideale di governo” ma anche come “l’obiettivo di qualsiasi nuova forma di governo”, sperando nel rilancio della “forma primitiva” del califfato.
È di certo possibile che le idee di Sisi sull’Islam, come quelle di molti egiziani, si siano evolute, soprattutto dopo la sua rottura con Morsi avvenuta due anni fa. In effetti, corre voce che egli si sia affiliato al movimento coranista radicalmente anti-islamista, il cui leader, Ahmed Subhy Mansour, è citato nella tesina dello studente Sisi. Ma Mansour sospetta che il rais “giochi con le parole” e aspetta di vedere se intende affrontare seriamente le riforme.
In effetti, finché non ne sapremo di più sulle idee personali di Sisi e non vedremo cosa farà dopo, io interpreto il suo discorso non come una presa di posizione contro tutto l’islamismo ma solo contro la sua forma violenta, quella forma che sta devastando la Nigeria, la Somalia, la Siria-Iraq e il Pakistan e che ha messo sotto assedio città come Boston, Ottawa, Sydney e Parigi. Come altri leader più tranquilli, Sisi promuove la Shari'a attraverso l’evoluzione e il sostegno popolare, anziché attraverso la rivoluzione e la brutalità. Sicuramente il fatto che non ci sarà alcuna violenza è un progresso rispetto alla violenza. Ma non è certo quella riforma dell’Islam che chi non è musulmano spera di vedere – soprattutto se si rammenta che operare in seno al sistema ha più probabilità di successo.
Una vera riforma necessita di studiosi dell’Islam, non di uomini forti, e rifiuta di applicare la Shari'a alla sfera pubblica. Per entrambe queste ragioni, è improbabile che Sisi sia quel riformatore tanto atteso.
(*) Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Daniel Pipes