Proteggere l’Europa dalla jihad di ritorno

venerdì 23 gennaio 2015


Vertice della Coalizione anti-Isis a Londra: si discute sull’intervento in Iraq e Siria guardando all’Europa. Come ha dimostrato l’attentato di Parigi, infatti, la maggior preoccupazione per la sicurezza è nel Vecchio Continente. Secondo i dati raccolti da Europol, infatti, i combattenti stranieri provenienti dalle democrazie occidentali sono circa 5000. Se tornassero dal Califfato potrebbero portarci la guerra in casa, con azioni terroristiche nelle nostre città.

Dopo il vertice di Londra difficilmente assisteremo a un cambio di rotta o a un’escalation delle operazioni militari nei territori controllati dal Califfato. Le linee d’azione che sono emerse, infatti, confermano la politica seguita finora: sostegno alle milizie locali che combattono sul terreno contro i volontari dell’Isis e raid aerei. Sono fuor di discussione interventi di terra. Ad escluderli dal dibattito non è tanto la difficoltà militare di condurre una guerra di terra contro un esercito irregolare, quanto la mancanza di consenso politico. Il ritiro delle ultime truppe statunitensi dall’Iraq nel 2011 ha infatti precluso ogni opzione militare di ampio respiro. Barack Obama ha vinto le elezioni con lo slogan “via dall’Iraq” ha sempre vantato di non aver votato a favore dell’invasione del 2003 (se non altro perché non era ancora senatore) e su questo si gioca la reputazione nei suoi ultimi due anni da presidente.

Nel 2008 la guerra irachena era già abbastanza impopolare da poterla paragonare al Vietnam. Dopo il 2011, dopo che l’ultimo uomo ha lasciato Baghdad, tornare laggiù sarebbe come tornare in forze a Saigon dopo il 1973. Semplicemente improponibile, politicamente improponibile. Baghdad non ha ancora fatto la fine di Saigon, caduta nelle mani dei comunisti nordvietnamiti due anni dopo il ritiro americano. Ma quasi. Regge ancora all’offensiva dell’Isis, ma solo grazie al sostegno di milizie irregolari sciite, sostenute dall’Iran, un altro nemico degli Stati Uniti nella regione. Intere unità dell’esercito regolare iracheno, armate, equipaggiate e addestrate dagli Usa, sono passate dalla parte dell’Isis, per motivi religiosi (sono sunniti), ideologici (sono guidate, ora, anche da generali di Saddam Hussein) e di opportunità (conquista di un territorio che possono dominare). Nonostante gli americani abbiano ottenuto la formazione, a Baghdad, di un governo più affidabile, non ci sono le condizioni per un intervento diretto, non ci sarebbe alcuna forza politica e militare locale in grado di appoggiarlo. Intervenire sull’altro fronte, in Siria, sarebbe ancora peggio: è ancora al potere il regime di Bashar al Assad, in guerra aperta con Israele e ostile agli Usa. La maggior forza di opposizione ad Assad è attualmente costituita proprio dall’Isis. La terza forza presente sul terreno, l’Esercito Siriano Libero, è troppo debole per sfondare e non è chiaro il suo rapporto con il Fronte Al Nusrah (Al Qaeda, fuor di metafora). Sia in Iraq che in Siria continuano a combattere i curdi, che però hanno un unico obiettivo in mente, quello della loro indipendenza, osteggiato da tutti gli alleati regionali degli Usa, a partire dalla Turchia. Inutile dire che, senza un intervento americano, gli europei (Francia e Gran Bretagna, prima di tutto) non ci pensano nemmeno ad intervenire da sole.

Escludendo un intervento di terra, per tutti i motivi che abbiamo visto finora, non può che proseguire la piccola guerra aerea che abbiamo visto finora. Come nello scorso vertice di Bruxelles, i ministri degli Esteri dei Paesi della Coalizione vantano almeno un limitato successo nell’aver “spezzato l’avanzata” del Califfato. Successo, per altro, ancora tutto da verificare, considerando che, invece, le milizie jihadiste continuano ad avanzare nella provincia irachena di Anbar, a ridosso di Baghdad. Quanto all’appoggio delle truppe di terra, la Nato è impegnata nella rinascita di un esercito regolare iracheno, ma come sostiene il ministro britannico Hammond, c’è letteralmente “ancora un grande lavoro da fare”. E occorreranno “diversi mesi” prima che le truppe di Baghdad possano passare al contrattacco.

La novità potrebbe invece intervenire sul fronte interno, in Europa. E si annuncerà in silenzio, senza troppo clamore. Non si tratterà, infatti di azioni militari, non sarà nulla di visibile. Aumenterà, piuttosto, il coordinamento fra polizie e servizi segreti nazionali per tracciare e arrestare i “combattenti stranieri”, cioè tutti quei volontari del Califfato provenienti da Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Danimarca e altri paesi in cui vengono reclutati a centinaia, anche a migliaia, dalla propaganda jihadista. Finora godevano di un tacito salvacondotto, perché andavano a combattere contro Assad, cioè contro un dittatore a cui Usa e Francia hanno dichiarato una guerra de facto, riconoscendo il Consiglio Nazionale Siriano che lo vorrebbe rovesciare. La musica era già cambiata con l’escalation del terrorismo di ritorno dalla Siria, soprattutto dopo le stragi di Montauban e Marsiglia (2012) compiute da Mohammed Merah, uno jihadista di ritorno. Un ulteriore allarme era stato provocato dalla nascita dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Episodi come quello della strage del Museo Ebraico di Bruxelles (2014), compiuta da Mehdi Nemmouche, hanno dimostrato che anche due anni dopo Merah era possibile, per uno jihadista di ritorno, eludere la sorveglianza di tre frontiere, Germania, Belgio e Francia, approfittando dello scarso coordinamento fra le intelligence nazionali. La strage di Parigi, poi, ha creato una situazione prossima al panico nelle forze dell’ordine francesi, che hanno mobilitato 88mila uomini per ucciderne 3. Dopo il vertice di Londra (si spera, almeno) verranno affrontati questi punti deboli.


di Stefano Magni