Siria ed Iraq, ovvero il puzzle impossibile

venerdì 5 dicembre 2014


All’indomani del vertice dei ministri degli Esteri della Nato, a Bruxelles si è tenuta anche la conferenza della Coalizione messa in piedi per combattere l’Isis. Una conferenza tenutasi al di fuori delle strutture della Nato, ma ospitata dal quartier generale dell’Alleanza, in cui si sono tracciate le linee guida della lotta al Califfato.

Prima di tutto, questa nuova guerra non si limita a una soluzione militare per la regione della Mezzaluna Fertile (Siria e Iraq) in cui si sta combattendo, ma prende le forme di un conflitto globale. La minaccia del Califfato è internazionale, con le sue propaggini in Libia, Egitto, Nigeria, la sua azione vigorosa di propaganda in Europa e America. Le armi che la coalizione deve mettere a punto, come tiene a precisare il segretario di Stato americano John Kerry, non sono solo militari, ma anche culturali e finanziarie, per contrastare la propaganda dell’Isis (nel mondo musulmano e oltre) e per bloccare le sue numerose fonti di finanziamento. La partecipazione alla Coalizione di numerosi paesi arabi, in questa prospettiva, può essere di grande aiuto.

Ma chiaramente tutti gli occhi sono puntati al fronte militare del Califfato, cioè all’Iraq e alla Siria. E qui iniziano i dolori. Proprio perché l’area è ormai talmente destabilizzata e frammentata da apparire come un complicatissimo puzzle, in cui è pressoché impossibile ricomporre le varie tessere senza provocare disastri da qualche parte. Il quadro finale che emergerà, quando dovesse emergere, sarà comunque drammatico. Nella guerra in corso si stanno combattendo sette parti fra loro apertamente ostili, quando non direttamente in guerra.

a) Siria, Iran, Hezbollah e Russia: il regime di Bashar al Assad riesce a mantenere il controllo solo sull’Ovest del Paese, compresa la capitale e le città della costa. Mantiene una solida alleanza con Hezbollah, in Libano, ancora ben armato e ostile a Israele. Ed protetto dalla Russia, che mantiene la sua importante base navale a Tartus. Alle spalle del regime di Assad c’è anche l’Iran, di cui Hezbollah è la longa manus in Medio Oriente.

b) Turchia e Qatar: la repubblica turca, membro della Nato e l’emirato arabo patria di Al Jazeera, mantengono buoni rapporti fra loro ed entrambi sostengono l’insurrezione sunnita contro Bashar al Assad. Il Qatar è sospettato di aver contribuito al finanziamento e alla crescita delle milizie islamiche radicali che poi sono confluite, prima nel Fronte al Nusrah (legato ad Al Qaeda) e poi nell’Isis. Ora il Qatar è parte della Coalizione, ma è ai ferri corti con gli altri Paesi arabi sunniti della regione, perché è l’unico che continua a cooperare con i Fratelli Musulmani, sia in Egitto che nella guerriglia siriana. La Turchia, benché parte della Nato, non rientra nella Coalizione contro l’Isis e coopera a malincuore alle operazioni militari nella regione. O non coopera affatto. È sotto accusa per la recente battaglia di Kobane, quando per un mese ha rifiutato di collaborare con i curdi assediati dall’Isis e (secondo fonti del giornalismo investigativo locale) avrebbe addirittura permesso a miliziani dell’Isis di passare indisturbati la sua frontiera meridionale per rifornirsi e continuare a combattere.

c) Curdi: combattono per la loro indipendenza e per la loro stessa sopravvivenza, contro chiunque cerchi di invadere il loro territorio, compreso fra gli attuali confini di Siria, Iraq, Turchia, Armenia e Iran. Hanno ottenuto l’appoggio indiretto di Israele e ottenuto armi ed equipaggiamento da molti Paesi membri della Nato, come sostegno alla loro lotta contro l’Isis. Hanno dimostrato di saper soprassedere alle differenze religiose e sono i maggiori protettori di cristiani e yezidi nella regione. I turchi, comunque, non possono accettare la loro indipendenza perché temono di veder crescere il loro indipendentismo nell’Anatolia orientale, mentre il governo centrale di Baghdad vorrebbe riannetterli.

d) Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti: questi Paesi arabi sunniti, molto diversi fra loro, hanno comunque forti interessi comuni. Il primo è quello di sostenere l’insurrezione sunnita contro Assad, per rovesciare il potere di un vecchio nemico. Il secondo è quello di contenere l’espansione dell’Iran nella regione. Il terzo è quello di contenere l’espansione dell’Isis e dei suoi propositi rivoluzionari, perché le prime vittime sarebbero il presidente egiziano Al Sisi, il re saudita e il re giordano. Stanno ingaggiando un braccio di ferro con il Qatar (indirettamente anche con la Turchia) per il loro ambiguo rapporto con la Fratellanza Musulmana e per i sospetti di una loro tacita collaborazione con l’Isis.

e) Israele: teoricamente estraneo al conflitto in corso, è chiuso nei suoi confini e si prepara al peggio. Il suo maggior nemico è l’asse sciita (vedi al punto a), l’unico che minaccia una possibile guerra su vasta scala. Come minaccia potenziale considera l’Isis. Israele ha dunque condotto raid mirati contro la Siria di Assad, ogni qualvolta trasferisce armi a Hezbollah in Libano, ma allo stesso tempo l’intelligence israeliana è già al lavoro per tracciare i movimenti dell’Isis e segnalarli agli alleati. Perché un Califfato potente, che dovesse emergere vincitore, sarebbe una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico.

f) Iraq: di fatto non esiste più, per come lo abbiamo finora conosciuto. È già diviso in tre parti in lotta fra loro: il Nord al Kurdistan, il Nordovest è nelle mani del Califfato e il centrosud è controllato dal governo legittimamente riconosciuto di Haider al Abadi, ma finora è sopravvissuto solo grazie all’appoggio di potenti milizie sciite, legate a doppio spago con l’Iran. Il governo di Baghdad, dunque, deve poter contare sull’appoggio sia dell’Iran che dell’Occidente, ma è difficile combinare le due cose.

g) Califfato: estendendosi fra le regioni della Siria orientale e quelle dell’Iraq nordoccidentale, rappresenta una novità geopolitica completamente inedita. Secondo Al Baghdadi, suo leader assoluto, dovrebbe costituire il nucleo di una rivoluzione islamica, mirata a rovesciare tutti i regimi arabi e musulmani esistenti e a rimpiazzarli con altrettante province del Califfato. Mira a rivoluzionare il mondo, anche se è militarmente ancora molto debole. Sfruttando il contrabbando della zona e il possesso dei pozzi di petrolio iracheni è diventato il più ricco movimento islamista della storia recente, recluta islamici radicali in tutto il mondo e sfrutta le divisioni fra i suoi nemici per consolidare i suoi domini ed espanderli.

La strategia messa in piedi dalla Coalizione mira a “ridimensionare e distruggere”, l’Isis, cioè l’esercito irregolare del Califfato. Non lo può fare alleandosi con l’asse sciita, che schiera le maggiori forze militari in campo. Perché, se lo facesse, perderebbe l’alleanza di Israele e alienerebbe le simpatie di tutti i Paesi arabi sunniti (Arabia Saudita inclusa), cosa che né gli Usa né gli alleati europei si possono permettere. Quando l’Iran dovesse colpire l’Isis con raid aerei, sarebbe “positivo”, come ha detto Kerry a Bruxelles. Ma, come ha tenuto a precisare subito dopo, “non solo non abbiamo pianificato, ma non pianificheremo neppure in futuro un coordinamento con l’Iran”. Quanto ad Assad, l’altro pilastro dell’asse sunnita, Kerry ha dichiarato ancora che non si può concepire la pace in Siria con il dittatore di Damasco ancora al potere. La Coalizione non può agire di concerto neppure con i curdi, benché questi si siano rivelati la forza locale più affidabile da tutti i punti di vista (militare, politico e religioso). Non si può fare alcuna alleanza strategica con loro, perché si perderebbe completamente l’appoggio della Turchia e del governo iracheno. Chiaramente non si può imbarcare Israele nella Coalizione, benché sia l’unica democrazia in tutto il Medio Oriente e l’unico alleato veramente stabile. Questo perché una sua eventuale partecipazione al conflitto provocherebbe l’ostilità immediata di tutti i Paesi musulmani, nella regione e nel resto del mondo.

Con chi allearsi, allora? Kerry indica la Turchia come principale alleato per gestire la crisi in Siria e il governo iracheno per gestire quella in Iraq. Una scelta molto convenzionale, dunque, l’unica che permetta di tenere assieme il fronte maggioritario dei sunniti (Turchia e Qatar da una parte, Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Giordania dall’altro). Ma non priva di pesanti contro-indicazioni. Basarsi sulla Turchia, infatti, vuol dire: accettare anche il Qatar, chiudere un occhio sull’appoggio ai Fratelli Musulmani e sul comportamento ambiguo nei confronti dell’Isis, scaricare definitivamente i poveri curdi. Ricostituire (con la collaborazione della Nato) una forza regolare in Iraq, vuol dire, oltre che ignorare ancora una volta i curdi e le loro aspirazioni indipendentiste, anche chiudere un occhio nei confronti delle milizie irachene sciite e delle locali ingerenze militari iraniane. Col rischio di spalancare le porte all’Iran nel Golfo persico, nell’immediato dopoguerra. In questa composizione delle alleanze, fra l’altro, a farne le spese saranno soprattutto i cristiani e le altre minoranze vittime delle persecuzioni del Califfato. I loro unici protettori, infatti, sono attualmente i curdi e il regime di Assad. Gli uni ignorati e l’altro considerato nemico.

Si poteva fare altrimenti? Forse. Ma ci vorrebbe un genio per ricomporre il puzzle della Mezzaluna Fertile senza fare gravi danni. E non ci sono geni all’orizzonte.


di Stefano Magni