martedì 18 novembre 2014
Abbiamo parlato per mesi della volontà degli Stati Uniti, assieme alle potenze del Golfo, di demolire gli equilibri del quadrante arabo e mediorientale per lasciare campo libero alle forze estremiste. Inizialmente abbiamo ricevuto come risposta la solita indifferenza, come se fosse impossibile che “il gendarme del mondo”, gli Usa potessero ideare delle strategie geopolitiche di questo genere.
Ci è voluta la sollevazione popolare di massa, civile e democratica di quei popoli ingannati e minacciati dall’integralismo jihadista per far aprire gli occhi al mondo su cosa stesse accadendo realmente e su chi ci fosse dietro; le pressioni di Obama e di Hillary Clinton per far cadere Mubarak, Gheddafi e Assad, la visita della baronessa Ashton al deposto Morsi, le riunioni dell’opposizione siriana a Doha e via andare, altri mille esempi potrei fare. Finché Assad non ha vinto le elezioni con una maggioranza schiacciante, proprio di quei cittadini siriani che conoscono le crudeli abitudini dei terroristi ormai predominanti nell’opposizione al governo di Damasco: cittadini che hanno scelto la sicurezza, magari non la libertà ma di certo nemmeno la lama che scorre sul collo ad ogni occasione.
Forse, nel caos di quei mesi al Presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama nessuno ha avuto il modo o il tempo di dire che la Siria ha votato e ha scelto Assad, ha scelto l’amico che improvvisamente diventa nemico e che occorre, per raggiungere determinati obiettivi, scalzare dalla poltrona il più presto possibile. Tanto grave è stata questa dimenticanza che a distanza di un anno, il presidente torna a puntare l’obiettivo contro Damasco, stavolta per sconfiggere il nuovo nemico della pace internazionale (che forse prima era se non amico quantomeno conoscente stretto) che si chiama Isis, il califfato di Abu Bakr Al Baghdadi. In base a quanto hanno riportato i media americani, secondo l’inquilino della Casa Bianca la caduta di Assad sarebbe decisiva al fine di battere lo Stato Islamico che domina parte della Siria e dell’Iraq.
Da cosa deriva questa presa di posizione? Dal fatto che nonostante tutti gli istruttori militari che si possano inviare ad addestrare gli eserciti e i guerriglieri della zona (oggi siamo a oltre 3000 fra presenti e in arrivo), occorre una forza militare vera che però non può essere quella americana in senso stretto. Allora serve mettere le mani, credo di poter interpretare, sull’esercito di altri. Magari su quello siriano, e farlo diventare qualcos’altro. Peccato che Assad, finora, abbia sostanzialmente vinto proprio con quell’esercito tutte le battaglie decisive nel suo Paese e che abbia fatto molto di più contro il terrorismo di quanto i blandi bombardamenti alleati non abbiano finora fatto contro Isis. Perché l’ostinazione, anche dopo un voto netto e evidente, nel voler far cadere Assad? Forse quella pedina geopolitica fondamentale verso Est, rappresentata dalla Siria, era l’ultimo tassello di una strategia più ampia che magari arriva fino alle pendici degli Urali?
Ipotesi, supposizioni, prospettive. Che però hanno il privilegio di essere suffragate dalla storia di questi ormai quattro anni, dallo scoppio delle primavere arabe fallite fino ad oggi. Ah, quasi mi dimenticavo, nel frattempo il presidente Obama ha ricevuto una sonora sconfitta nelle elezioni di Midterm, tale da non poter controllare più nessuna delle due Camere: almeno questo, speriamo che i suoi collaboratori gliel’abbiano detto.
di Souad Sbai