Abbas non condannerà gli attentati terroristici

sabato 15 novembre 2014


La recente ondata di attentati terroristici a Gerusalemme, Tel Aviv e in Cisgiordania non ha stupito chi segue la campagna di istigazione alla violenza, tuttora in corso, condotta dai palestinesi contro Israele.

Questa campagna si è intensificata subito dopo l’ultimo fallimento del “processo di pace” tra Israele e i palestinesi avviato dal segretario di Stato americano John Kerry. Il “processo di pace” di Kerry ha davvero messo gli israeliani e i palestinesi in una nuova rotta di collisione, che ha raggiunto il suo apice con i recenti attentati terroristici contro gli israeliani.

Kerry non è riuscito ad ammettere che il presidente dell’Autorità palestinese (Ap), Mahmoud Abbas, non ha ricevuto un mandato dal suo popolo per negoziare, per non dire firmare, un accordo con Israele. Abbas è ormai arrivato al decimo anno di un mandato politico di quattro.

Il segretario di Stato americano non ha nemmeno prestato ascolto ai consigli di chi lo aveva avvisato e ai suoi collaboratori che lo avevano messo in guardia sul fatto che Abbas non fosse in grado di porre concretamente in essere nessun accordo con Israele. Abbas non può nemmeno recarsi nella sua residenza privata nella Striscia di Gaza governata da Hamas e controlla meno del 40 per cento della Cisgiordania. Ma Kerry dove si aspettava di attuare un accordo con Israele? A Ramallah o a Nablus?

Ciò che Kerry e gli altri leader occidentali non vogliono capire è che Abbas non è autorizzato a fare alcuna concessione in cambio della pace con Israele e ha anche più volte promesso al suo popolo che non avrebbe fatto alcuna concessione per amore della pace con lo Stato ebraico.

In un discorso pronunciato a Ramallah l’11 novembre in occasione del decimo anniversario della morte del suo predecessore, Yasser Arafat, Abbas ha dichiarato: “Chi rinuncia a un solo granello di terra della Palestina e Gerusalemme non è uno di noi”.

Solo questa affermazione dovrebbe bastare a Kerry e ai leader occidentali per rendersi conto che sarebbe impossibile chiedere ad Abbas di fare delle concessioni. Come Arafat, il presidente dell’Ap è diventato ostaggio della propria retorica. Come ci si può aspettare che Abbas accetti un accordo che non include il 100 per cento delle sue richieste, e in questo caso, tutti i territori conquistati da Israele nel 1967?

Lo stesso Abbas sa che se tornasse a casa con l’approvazione del 97-98 per cento delle sue richieste, il suo popolo gli sputerebbe in faccia o lo ucciderebbe, dopo averlo accusato di essere un “disfattista” e di “aver rinunciato ai diritti palestinesi”.

Questo è esattamente il motivo per il quale Abbas ha deciso di abbandonare il “processo di pace” di Kerry durato nove mesi. Rendendosi conto che Israele non avrebbe accettato tutte le sue richieste, la scorsa estate, Abbas ha preferito abbandonare i colloqui di pace.

Per Abbas è più conveniente essere criticato dagli Stati Uniti e Israele piuttosto che essere denunciato dal suo popolo per aver raggiunto un pessimo risultato con Israele.

Non tenendo conto di questi fatti, Kerry ha cercato di convincere Abbas a fare concessioni che trasformerebbero il presidente dell’Autorità palestinese in un “traditore” agli occhi del suo popolo.

Invece di essere onesto con la popolazione e dirle che la pace richiede dolorose concessioni anche da parte dei palestinesi, e non solo di Israele, Abbas ha preferito – dopo il fallimento del “processo di pace” di Kerry – istigare i palestinesi contro lo Stato ebraico.

Da allora, il presidente dell’Ap ritiene Israele responsabile del fallimento degli sforzi del segretario di Stato americano. Abbas usa al contempo i media e la retorica infiammata per dire al suo popolo che Israele non è un partner di pace e che l’unico obiettivo dello Stato ebraico è quello di conquistare le terre e compiere “la pulizia etnica” e “un genocidio” contro i palestinesi.

Le recenti accuse lanciate da Abbas contro i coloni ebrei e gli estremisti, responsabili a suo dire di “contaminare” la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme vanno inserite nel contesto della massiccia campagna di istigazione alla violenza che si è intensificata all’indomani del fallimento del “processo di pace” di Kerry.

Nel corso degli ultimi mesi, Abbas, Hamas e la Jihad islamica hanno radicalizzato i palestinesi al punto che è diventato assurdo anche parlare di processo di pace con Israele.

Abbas è ben consapevole che il suo popolo lo condannerebbe se mai tornasse a sedersi al tavolo dei negoziati con Israele. È per questo che ora egli ha scelto una strategia differente: cercare di imporre una soluzione, con l’aiuto delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.

Egli vuole che il Consiglio di sicurezza dell’Onu e la comunità internazionale gli diano ciò che lo Stato ebraico non potrà concedergli al tavolo dei negoziati.

La campagna di istigazione alla violenza contro Israele ricorda l’atmosfera che regnava in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza subito dopo il vertice abborracciato di Camp David dell’estate 2000. Allora, anche Yasser Arafat abbandonò il tavolo dei negoziati dopo aver capito che Israele non gli avrebbe concesso tutto ciò che chiedeva, ossia un completo ritiro entro i confini precedenti al 1967.

Al suo ritorno da Camp David, anche Arafat scatenò una campagna di istigazione alla violenza contro Israele che finì per portare allo scoppio della seconda Intifada, nel settembre 2000.

Ora Abbas sta seguendo le orme di Arafat intensificando i suoi attacchi retorici contro Israele. Questa volta Hamas e gli altri gruppi terroristici si sono uniti apertamente alla sua campagna di istigazione alla violenza chiedendo ai palestinesi di usare le auto e i coltelli per uccidere gli ebrei al fine di “difendere” la moschea di al-Aqsa.

Il rifiuto di Abbas di condannare i recenti attentati terroristici contro Israele può essere attribuito a due motivi: la paura del suo popolo e la convinzione che la violenza costringerà Israele a fare delle ampie concessioni. Rifiutando di denunciare gli attentati ed elogiando i perpetratori come fossero eroi e martiri (come ha fatto nel caso di Mu'taz Hijazi, l’uomo di Gerusalemme Est che ha sparato e ferito gravemente il rabbino e attivista Yehuda Glick), Abbas esprime la sua tacita approvazione della violenza.

Di fatto, nessun funzionario dell’Ap ha denunciato l’ondata di attentati terroristici contro Israele. Anche loro hanno paura di essere condannati dal proprio popolo se denunciassero “le operazioni eroiche”, come l’accoltellamento di una donna di 26 anni e l’episodio dell’auto che è stata lanciata contro un gruppo di persone alla fermata di un tram investendo la carrozzina di una neonata di tre mesi che è rimasta uccisa.

Abbas spera che gli attentati terroristici continueranno a mantenere il conflitto israelo-palestinese in cima all’agenda internazionale nel momento in cui tutti gli occhi sono puntati sulla minaccia costituita dallo Stato islamico, il gruppo terroristico che opera in Siria e in Iraq. Egli sa anche molto bene che il popolo che lui ha radicalizzato gli si rivolterebbe contro se osasse alzare la voce contro l’uccisione degli ebrei.

(Traduzione a cura di Angelita La Spada)

(*) Gatestone Institute

 


di Khaled Abu Toameh (*)