La nuova guerra di Barack Obama

venerdì 7 novembre 2014


Dopo neppure 24 ore di stordimento, dovuto al Ko subito nelle elezioni di Medio Termine, Barack Obama è tornato ad occuparsi di politica estera in Medio Oriente. E della questione più urgente, soprattutto: la guerra contro l’Isis. Il presidente ha annunciato che chiederà al Congresso una nuova autorizzazione all’uso della forza in Iraq e Siria per combattere il Califfato. Da un punto di vista legale, questa autorizzazione soppianterà quella accordata nel 2001 per l’uso della forza militare contro Al Qaeda, la stessa che fornì la base giuridica per l’intervento in Afghanistan e quella del 2002 che diede il via libera all’invasione dell’Iraq.

Questa nuova mossa politica della Casa Bianca serve ad appianare una controversia legale, tutta interna agli Usa. Finora, infatti, i raid aerei contro l’Isis sono stati condotti senza prima consultare il Congresso, per decisione (arbitraria) del presidente, facendo riferimento alle precedenti risoluzioni. Gli isolazionisti, sia quelli del partito democratico che di quello repubblicano, hanno sempre contestato la legalità di questa azione militare. Rispetto ad Al Qaeda, dichiara Obama, «Ora abbiamo un nemico di tipo differente. La strategia per affrontarlo è diversa e dobbiamo ristrutturare il modo in cui ci rapportiamo ai partner del Golfo, con l’Iraq e con la coalizione internazionale (messa in piedi per combattere l’Isis, ndr)». Ora la palla passerà al Congresso, sapendo che la maggioranza al Senato è cambiata.

La guerra contro l’Isis non è un’esclusiva democratica o repubblicana. Gli interventisti, così come gli isolazionisti, sono in entrambi i partiti. Considerando che il Senato sarà in mano repubblicana, con l’inizio del nuovo anno, il consenso del Gop diventa fondamentale. E anche all’interno della futura maggioranza, non mancano le divisioni. Il campione repubblicano del fronte interventista è sicuramente John McCain, che già nel 2013 premeva per un intervento statunitense in Siria. Il campione (sempre repubblicano) dell’isolazionismo è Rand Paul, possibile prossimo candidato presidenziale nel 2016. Camminando sulle orme del padre Ron (ex candidato alle primarie del 2008 e 2012), anche il giovane Paul ritiene che la guerra mediorientale debba essere gestita solo da Stati mediorientali e che gli Usa debbano tenersi fuori il più possibile. Per ora, comunque, il fronte interventista, almeno contro l’Isis, sembra prevalere numericamente.

Nel frattempo, anche senza l’assenso del Congresso, la guerra procede. Le operazioni aeree, in questo mese si sono concentrate attorno a Kobane, la città curda nel Nord della Siria assediata dagli jihadisti. Se fosse caduta e si fosse consumato l’inevitabile massacro di prigionieri e civili, sotto gli occhi dei turchi, a due passi dal loro confine (che coincide con la frontiera sud-orientale della Nato) tutto l’Occidente avrebbe rimediato uno scandalo internazionale. Dopo un mese e mezzo di indecisione, l’intervento aereo statunitense ha scongiurato questo pericolo. Almeno per ora. A cambiare drasticamente la situazione è stato anche l’accordo, strappato quasi a forza alla Turchia, per far affluire volontari curdi a Kobane, per aiutare i combattenti locali. Tuttora, i curdi stanno arrivando in gran numero, anche dalle comunità di emigrati in Europa. Attorno alla città assediata, dunque, si è venuto a creare un piccolo conflitto internazionale: brigate internazionali curde (appoggiate da movimenti e partiti di estrema sinistra occidentali) contro brigate internazionali jihadiste, formate da fondamentalisti islamici accorsi da tutto il mondo per dar man forte al Califfato. In questo conflitto, gli Usa hanno preso la decisione ferma di appoggiare i curdi, nonostante la tensione fra questi ultimi e la Turchia (un membro della Nato) resti molto forte.

L’Isis non è l’unico bersaglio della campagna statunitense. In Siria gli ultimi raid sono stati condotti per colpire il gruppo Khorasan, nella provincia di Idlib. Il Khorasan è una formazione terrorista parte di Al Qaeda, anch’essa formata da combattenti jihadisti provenienti da tutto il mondo. L’ultimo raid americano, effettuato con droni Predator, ha ucciso uno dei suoi membri di spicco: l’ingegnere francese, convertito all’Islam, David Drugeon. Benché molto giovane (24 anni), era considerato uno dei principali tecnici del movimento armato, particolarmente competente a costruire esplosivi.

Questi raid e l’intervento per salvare Kobane dimostrano quanto sia cambiata la strategia statunitense nella regione. Se nel settembre di un anno fa si pensava di bombardare le truppe governative di Assad, per favorire una vittoria dei ribelli, ora la priorità è combattere quella parte di ribelli che ha imboccato la strada del terrorismo islamico (Al Qaeda o Isis, entrambi nemici). E questo, ignorando, o addirittura favorendo indirettamente, la causa di Assad. Ma la situazione è talmente fluida che non dobbiamo affezionarci troppo a questo scenario: gli schieramenti cambieranno ancora, non appena le truppe del dittatore siriano torneranno all’offensiva.


di Stefano Magni