Pechino è vicina, paura a Hong Kong

giovedì 16 ottobre 2014


Paura ad Hong Kong. Paura che la protesta per la democrazia, che va avanti pacificamente da due settimane, venga repressa. La sfida al sistema cinese è forte: si tratta della prima grande manifestazione per la democrazia dal 1989. Non a caso è potuta sorgere e svilupparsi a Hong Kong, finora isola felice liberale incastonata nella periferia sudorientale del gigante totalitario cinese. L’ultima ondata di manifestazioni è iniziata giovedì scorsa, in risposta all’interruzione dei negoziati fra il governatore cinese e le organizzazioni studentesche, Federazione degli Studenti e Scholarship, vera anima della protesta. Le associazioni giovanili e il movimento Occupy Central chiedono (nientemeno che) libere elezioni e suffragio universale per la scelta del prossimo governatore, che Pechino, invece, vorrebbe imporre attraverso il voto di un consiglio di notabili selezionati.

Dopo quattro giorni di confronto pacifico, martedì la polizia ha iniziato a sgomberare alcune delle arterie dei quartieri occupati dagli studenti. Questi ultimi, allora, hanno ripiegato nel sottopassaggio di Lung Wo, sul lungomare, di fronte alla sede del governo. La polizia ha caricato di nuovo, per smantellare la piccola testuggine di ombrelli (simbolo della rivoluzione) retti dagli studenti. Il bilancio finale è di 45 arrestati per resistenza a pubblico ufficiale e manifestazione non autorizzata. La polizia è sotto accusa per aver pestato e mandato all’ospedale un membro del Partito Civico, Ken Tsang. L’azione brutale è stata ripresa dalle Tv locali e il governo di Hong Kong ha dovuto aprire un’inchiesta. Probabilmente non si tratta dell’unico ferito, ma stupisce, comunque, il tatto con cui la polizia sta eseguendo gli ordini. Le autorità di Hong Kong dichiarano addirittura di non voler sgomberare affatto i picchetti degli studenti, ma di limitarsi a tenere aperte le principali arterie cittadine, solo per sbloccare il traffico metropolitano.

Questa prudenza si può spiegare solo col fatto che Hong Kong non è la Cina. Non ancora, per lo meno. Lo diventerà dal 2017, quando il governatore sarà, di fatto, imposto da Pechino. Ma per ora resta un’oasi di libertà, ereditata dal dominio britannico. La polizia, dunque, si muove con metodi britannici. Incidenti come quello che ha coinvolto l’oppositore Ken Tsang sono l’eccezione non la regola. E sono cose che avvengono in tutte le grandi azioni di polizia, anche nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo se, invece di una Occupy Central ad Hong Kong, avessimo visto una protesta analoga nella vicina Shanghai. Pechino avrebbe già mandato esercito e polizia paramilitare, tutti i canali di informazione, dai media ai social network, sarebbero stati immediatamente oscurati, l’accesso di tutta la regione sarebbe stato vietato ai giornalisti stranieri e ai turisti. Persino i cinesi non di Shanghai sarebbero stati fermati a posti di blocco, a decine di chilometri dall’epicentro della rivolta. Dopodiché, nel silenzio tombale, l’esercito avrebbe iniziato a fare piazza pulita dei rivoltosi, ammazzandone alcuni, arrestando gli altri e deportandoli in luoghi lontani. Della rivolta avremmo visto qualcosa solo grazie a qualche coraggioso hacker, munito di videocamera, e abbastanza bravo da mandare le immagini su Internet senza farsi scoprire e bypassando la censura. Ne avrebbero parlato, a giorni o mesi di distanza, citando rare testimonianze oculari, solo media specializzati come Radio Free Asia e l’agenzia missionaria Asia News, oppure Ong come Amnesty International. Questo che abbiamo appena descritto non è uno scenario di fantasia: è ciò che è accaduto, pochi anni fa, nelle città in rivolta del Turkestan orientale e del Tibet, regioni autonome poste direttamente sotto il controllo di Pechino.

Perché, allora, i cittadini di Hong Kong temono il peggio? Perché, fra un paio di anni, potrebbero fare la stessa fine dei connazionali nel resto della Cina. La polizia di Hong Kong usa il guanto di velluto, ma sta contribuendo a consegnare la città a chi, invece, userà il pugno di ferro. E le notizie che vengono diffuse da Pechino non sono incoraggianti. Il funzionario cinese di più alto rango presente a Hong Kong, Zhang Xiaoming, dichiara che il movimento di protesta democratico sia “un grave incidente politico che viola il principio del ‘un Paese’, sfidando l’autorità centrale”. Il principio citato è a metà e risulta cacofonico in italiano. Si chiama: “Un Paese, due sistemi”. Zhang cita solo la prima parte della formula, perché dà già per scontato che i due sistemi siano destinati a scomparire, quando Hong Kong diverrà, in tutto e per tutto, una città della Repubblica Popolare Cinese, sottoposta all’autorità centrale di Pechino.


di Stefano Magni