Un Nobel contro l’infanzia rubata

sabato 11 ottobre 2014


Il Nobel per la Pace, quest’anno, va a Malala Yousafzai (Pakistan) e a Kailash Satyarthi (India).

Più nota al grande pubblico rispetto al secondo vincitore, Malala avrebbe potuto essere insignita del premio anche l’anno scorso. Le era stata preferita una Ong, un attore collettivo, impegnata nello smantellamento di armi chimiche in Siria. La delusione del 2013 è stata dunque colmata con la scelta di quest’anno da parte del comitato di Oslo. La ragazza pakistana, 17 anni quest’anno, è la più giovane vincitrice del Nobel. “Nonostante la sua giovane età – si legge nelle motivazioni - già da anni combatte per i diritti della bambine all’educazione e ha dimostrato con l’esempio che bambini e giovani possono anche loro contribuire a migliorare la situazione. E lo ha fatto nelle circostanze più pericolose: attraverso la sua battaglia eroica, è diventata una voce guida per i diritti dei bambini all’educazione”. Già dal 2010, per la precisione, quando aveva solo 12 anni, Malala Yousafzai aveva deciso di non tacere di fronte ai soprusi dei Talebani, che dominano la valle di Swat, nel Pakistan occidentale (ai confini con l’Afghanistan) in cui è nata e cresciuta. I Talebani vietano, per motivi religiosi, che le bambine e le ragazze studino. E vietano che le donne, una volta adulte, lavorino, o escano di casa, se non accompagnate da un maschio di famiglia e se non coperte interamente dal burqa. In questo regime di segregazione totale, neppure un medico può visitare direttamente una donna, non potendone toccare o osservare il corpo. Malala, dopo aver assistito a violenze contro scolare e studentesse, scuole femminili distrutte e minacce di ogni tipo, aveva deciso di pubblicare un diario, poi diventato un appuntamento fisso sulla Bbc in lingua urdu. Purtroppo e per fortuna è diventata una celebrità e i talebani l’hanno inserita nella loro lista nera. Nel 2012 hanno tentato di eliminarla, sparandole alla testa. È sopravvissuta per miracolo. Ora vive e studia in Gran Bretagna. Il suo Paese le ha riconosciuto un premio in denaro e una medaglia per la libertà, ma non è in grado di proteggerla. Nel 2013, la giovanissima Yousafzai aveva pronunciato all’Onu un vibrante discorso in difesa del diritto allo studio: “I Talebani hanno cercato di tapparmi la bocca. Non ci sono riusciti e hanno sollevato un coro di voci”. È giunta finalmente l’ora del suo solenne riconoscimento internazionale.

Kailash Satyarthi, dall’alto dei suoi 60 anni, è decisamente più anziano della Yousafzai, ma anch’egli si è distinto per la strenua lotta in difesa dei diritti dei minori. In India i Talebani non sono al potere in alcuna regione, ma gli usi e i costumi diffusi dalla cultura tradizionale raggiungono vette di sopruso raramente eguagliate. Nella motivazione si legge che, con “grande coraggio personale, mantenendo la tradizione di Gandhi, guidando varie forme di protesta e dimostrazione, tutte pacifiche, contro il grave sfruttamento dei bambini a scopi di finanziari, contribuendo anche allo sviluppo di importanti convenzioni internazionali sui diritti dei bambini”. Dalla sua fondazione, Bachpan Bachao Andolan, Satyarthi ha liberato dalla schiavitù e ha reinserito nella vita sociale oltre 80.000 bambini. Ha organizzato la Marcia Globale contro il Lavoro Infantile, una manifestazione che nella sua prima edizione, nel 1998, ha toccato 90 paesi, inclusa l’Italia, percorrendo 80.000 chilometri. Ha contribuito a far adottare, nel 1999, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la convezione n.182 contro lo sfruttamento del lavoro minorile.

La Yousafzai e Satyarthi sono, rispettivamente, una testimonianza vivente e un leader veterano della stessa battaglia: quella per i diritti dei bambini. Simbolica la scelta di premiare una pakistana (donna e musulmana) e un indiano, provenienti da due Paesi, entrambi dotati di armi atomiche, sempre sull’orlo di uno scontro totale.

Il momento è quello giusto. In Nigeria, Centrafrica, Somalia, Siria, Iraq, i bambini vengono strappati alla loro infanzia e gettati nei campi di battaglia come carne da macello. Nei regimi islamici e nei movimenti jihadisti vengono indottrinati sin dalla tenera età a suicidarsi per uccidere. In Cina non possono neppure nascere se sono secondogeniti. In India, ancora oggi in molte regioni rurali, non possono nascere se non sono maschi. In buona parte dei Paesi in via di sviluppo non possono studiare perché costretti a lavorare, anche senza paga. Non che la situazione sia peggiorata: anzi, l’ultimo rapporto Unicef dimostra un miglioramento a tutto campo della condizione dei minori, in termini di minor mortalità, maggior speranza di vita e maggior alfabetizzazione. Ma proprio questo miglioramento, che dobbiamo alla tanta vituperata globalizzazione, ci rende sensibili nei confronti di quelle società che ancora non permettono ai loro figli di crescere in pace e in sicurezza.

Il presupposto filosofico con cui questo premio è stato assegnato è evidente: solo proteggendo i diritti individuali fin dalla prima infanzia è possibile far crescere una società pacifica. Sicuramente si tratta di un premio meritato, molto più di quello assegnato a un presidente appena eletto o a un’organizzazione di tecnici che svolge il proprio lavoro, a leader terroristi che si presentano all’Onu con la pistola nella fondina o a diplomatici cinici che avallano genocidi e colpi di Stato. Il Nobel per la Pace ci aveva abituati al peggio. Ieri, finalmente, ci ha fatto sperare di nuovo.


di Stefano Magni