La guerra all’Isis: le mosse dell’Iran

martedì 23 settembre 2014


Alla conferenza internazionale contro l’Isis che ha radunato a Parigi la scorsa settimana venti paesi, l’Iran non è stato invitato.

Da Teheran, l’Ayatollah Ali Khamenei, guida suprema della Repubblica islamica, si è premurato di dichiarare pubblicamente di aver invece rifiutato l’invito alla conferenza e respinto l’offerta di collaborare con la coalizione anti-Isis, mentre da Washington gli facevano eco fonti del Dipartimento di Stato che manifestavano l’intenzione americana di non volere la presenza dell’Iran nella alleanza anti jihadisti. Fin qui le dichiarazioni pubbliche.

Eppure nelle ultime settimane, funzionari della Cia e del Vevak, i servizi segreti iraniani, incaricati dai rispettivi governi, si sono incontrati riservatamente in Iraq per discutere del pericolo Isis e pochi giorni orsono aerei della Us Navy, decollati da una base in Kuwait, hanno fornito appoggio dal cielo ai reparti dell’esercito iracheno e delle milizie sciite filo-iraniane nella riconquista della città di Amerli, al confine con il Kurdistan, occupata dagli islamisti dal 18 giugno. Il video circolato su YouTube in cui un entusiasta Qasem Suleimani, il generale a capo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, celebrava ad Amerli la riconquista della città, circondato dai suoi soldati festanti, deve aver messo in forte imbarazzo l’amministrazione Obama.

Washington e Teheran, malgrado le preoccupazioni e i timori condivisi sull’avanzata dell’Isis e la volontà di arginare il Califfato islamico, fanno di tutto per dissimulare pubblicamente ogni collaborazione operativa. Da una parte, gli americani non vogliono essere visti dietro una guerra ai sunniti per conto dell’Iran, contro cui la Casa Bianca continua invece a puntare il dito con accuse di sostegno al terrorismo; gli iraniani, da parte loro, specie l’establishment, non vogliono essere ritratti come subordinati agli Stati Uniti in una vicenda che si svolge praticamente nel proprio cortile di casa.

Strategie politiche a parte, la guerra contro l’Isis ha fatto emergere anche un’altra realtà: l’espansionismo iraniano in Medio Oriente sembra ora incontrare una fase di stallo, se non di regressione: in Iraq la componente sciita, e primo tra tutti l’uomo sul quale aveva puntato Teheran, l’ex primo ministro Maliki, ha perso terreno e influenza; l’altro grande alleato di Teheran, il regime di Bashar Al Assad in Siria, malgrado sia sopravvissuto alla guerra civile, non è più quello forte di prima; gli Hezbollah libanesi sono bloccati nel pantano siriano e non riescono più a giocare il ruolo determinante a Beirut; infine Hamas ha non solo perso consenso tra i palestinesi di Gaza, ma si è di fatto inimicato tutti i paesi arabi dell’area.

Sulla questione dell’Isis, il regime di Teheran dovrà scegliere la migliore strategia che salvaguardi il ruolo di potenza regionale del paese. Per gli iraniani l’ISIS è certamente un nemico mortale: ha preso di mira le popolazioni sciite nel nord dell’Iraq, umiliate e massacrate e messo in serio pericolo il governo stesso a Baghdad forzando alle dimissioni il loro uomo più fidato, Nuri al-Maliki. In Siria poi, gli uomini del Califfato hanno combattuto duramente contro Bachar el Assad, uccidendo sul campo anche molti iraniani arruolati nelle file dell’esercito lealista. Ma se sconfiggere i jihadisti significa perdere contatto sul terreno in Iraq e in Siria e lasciare libero il campo agli americani e ai loro alleati arabi sunniti, allora gli ayatollah iraniani preferiscono tirarsi fuori e non partecipare alle operazioni della coalizione anti-islamisti.

Tutti gli occhi sono dunque puntati su Teheran: quello che decideranno gli ayatollah determinerà anche il reale e concreto coinvolgimento degli altri paesi arabi sunniti, primi tra tutti le monarchie del Golfo, nella guerra contro l’Isis. I leader sunniti auspicano certamente la sconfitta del califfato di Abu Bakr Al Baghdadi, ma non vogliono però che la scomparsa degli jihadisti aiuti l’Iran a riconsolidare la sua strategia espansionistica in Medio Oriente. Per loro sarebbe allora meglio un esercito islamico indebolito che possa fronteggiare e contenere l’Iran, piuttosto che il nulla.

Non sarà facile per gli americani e gli alleati europei gestire questo puzzle complicato; sarà necessaria tanta pazienza e una grande abilità diplomatica.


di Paolo Dionisi