mercoledì 3 settembre 2014
Il 28 agosto, Recep Tayyip Erdogan è diventato ufficialmente il nuovo presidente della Turchia e lo stesso giorno è iniziato il mandato di Ahmet Davutoglu come suo successore designato alla guida del governo. Che cosa fanno presagire questi cambiamenti per la Turchia e la sua politica estera? La risposta è: niente di buono.
Nel giugno 2005, quando Davutoglu era consigliere di politica estera di Erdogan, ebbi un colloquio con lui per un’ora ad Ankara. Ancora ricordo due argomenti di quella conversazione.
Egli mi chiese del movimento neo-conservatore statunitense, allora all’apice della sua fama e della sua presunta influenza. Iniziai esprimendo i miei dubbi in merito al fatto che io fossi un membro di quell’élite, come Davutoglu presumeva, e gli feci notare che nessuno dei grandi decisori dell’amministrazione di George W. Bush (il presidente, il vicepresidente, il segretario di Stato, il segretario alla Difesa, il consigliere per la sicurezza nazionale) era un neo-con, un fatto che mi rese scettico del suo tanto vantato potere. Davutoglu reagì con una sottile forma di antisemitismo, sostenendo che i neo-conservatori erano molto più potenti di quanto io non volessi ammettere perché lavoravano insieme in una rete segreta basata sui legami religiosi (ebbe il buon gusto di non dire quale religione potesse essere).
Poi, gli feci delle domande sugli obiettivi della politica estera turca in Medio Oriente, nell’era del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) inaugurata nel 2002, rimarcando le nuove ambizioni di Ankara in una regione che essa aveva a lungo disprezzato. Davutoglu ammise questo cambiamento, e poi mi fece fare un rapido giro d’orizzonte dall’Afghanistan al Marocco, sottolineando i legami speciali che univano la Turchia a molti paesi. E così mi parlò della presenza dei turcofoni (ad esempio in Iraq), del retaggio del dominio ottomano (in Libano), della simbiosi economica (con la Siria), dei legami islamici (con l’Arabia Saudita) e della mediazione diplomatica (Iran).
Ciò che mi più mi colpì, fu l’ottimismo vanaglorioso e la completa sicurezza di sé mostrati da Davutoglu, un ex docente di relazioni internazionali e ideologo islamista. Egli non solo lasciò intendere che la Turchia aveva aspettato con trepida attesa il suo arrivo e la sua grande visione, ma si mostrò altresì compiaciuto di trovarsi in una posizione tale da poter applicare le sue teorie accademiche alla grande tela della politica internazionale (questo privilegio però capita di rado). Insomma, quella conversazione non m’ispirò fiducia né suscitò in me ammirazione.
Se Davutoglu negli anni successivi fece fortuna, riuscì a farla solo in veste di consigliere del suo unico patron Erdogan. Il suo curriculum, invece, annovera una politica incoerente e un fallimento costante, un fallimento talmente assoluto da rasentare il fiasco. Sotto la guida di Davutoglu, i rapporti di Ankara con i paesi occidentali si sono quasi tutti guastati, e quelli con l’Iran, l’Iraq, la Siria, Israele, l’Egitto e la Libia, tra gli altri paesi mediorientali, si sono deteriorati. E per finire, il dominio turco è in pericolo anche nella sua satrapia di Cipro del Nord.
In modo emblematico, la Turchia sta sgattaiolando via dall’alleanza della Nato per dirigersi verso la fazione sino-russa nota come l’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione. Come osserva purtroppo il leader dell’opposizione Kemal Kiliçdaroglu: “La Turchia è cresciuta solitaria nel mondo”.
Dopo aver fallito come ministro degli Esteri, ora Davutoglu – in applicazione del “principio di Dilbert” – ascende a una leadership subordinata tanto all’Akp quanto al governo. Egli deve affrontare due importanti sfide.
Come leader dell’Akp, è incaricato di riportare una grande vittoria nelle elezioni parlamentari del giugno 2015 per modificare la Costituzione e trasformare la funzione semi-cerimoniale del presidente della Repubblica nel sultanato elettivo che tanto Erdogan brama. Davutoglu è in grado di fornire questi voti? Sono scettico a riguardo. Credo che Erdogan rimpiangerà il giorno in cui ha rinunciato al suo premierato per diventare presidente, poiché si ritroverà ignorato e stufo di vivere nel gigantesco “campus” presidenziale.
Come ventiseiesimo premier turco, Davutoglu deve affrontare una bolla di sapone economica che sta rovinosamente per scoppiare, una crisi dello Stato di diritto, un Paese infiammato dalla politica del divide et impera di Erdogan, un ostile movimento Gülen e un Akp diviso, tutti convergenti in seno a un Paese sempre più islamista (e pertanto incivile). Inoltre, i problemi di politica estera che Davutoglu stesso ha creato ancora continuano, soprattutto la crisi degli ostaggi dell’Isis a Mosul.
Lo sfortunato Davutoglu fa pensare a una squadra di pulizia che arriva nel luogo dove c’è stata una festa alle quattro del mattino e deve rimettere in ordine lo scompiglio lasciato dagli invitati che se ne sono andati. Per fortuna, il controverso e autocratico Erdogan non ricopre più una posizione governativa chiave; ma l’aver messo il Paese nelle mani instabili di un fedelissimo di comprovata incompetenza solleva nuove preoccupazione per i turchi, i loro vicini e per tutti quelli che vogliono il bene del Paese.
(*) Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Daniel Pipes