giovedì 28 agosto 2014
Una caratteristica evidente della crescente ondata di antisemitismo in Gran Bretagna è il silenzio con cui i leader del Paese hanno scelto di rispondere al clima di odio e intimidazione, diretto non solo agli stessi ebrei, ma sempre più a chi non è legato al mondo ebraico.
Secondo un rapporto pubblicato a luglio dal Community Security Trust, un ente di beneficenza istituito per garantire la sicurezza della comunità ebraica nel 1994, anche se quattro attacchi antisemiti su cinque di solito avvengono “nei principali centri ebraici di Greater London e Greater Manchester”, attacchi violenti contro gli ebrei e i simboli dell’ebraismo sono ora in corso in tutto il Paese.
Qaiser Malik, 19anni, e Balawal Sultan, 18anni, nati entrambi a Newcastle, sono attualmente in attesa di giudizio per un’aggressione a sfondo razziale contro un rabbino avvenuta sabato 19 luglio. A Belfast, nell’Irlanda del Nord, lo stesso sabato, la sinagoga è stata attaccata due volte. E in Inghilterra, come in Francia, le sinagoghe sono un bersaglio particolarmente preferito dell’odio contro gli ebrei. Questa tendenza si estende da Liverpool, nella parte settentrionale del Paese, dove chi frequenta la sinagoga è salutato con slogan del tipo: “Assassini di bambini”, fino a Brighton, nella parte meridionale.
Dopo l’omicidio di un soldato britannico a Woolwich, il 22 maggio 2013, la polizia ha fatto grandi sforzi per proteggere le moschee di tutto il Paese e il coro di condanne politiche delle aggressioni dirette contro i luoghi di culto musulmani è stato immediato e unanime. Definire discutibile l’attuale risposta è un eufemismo.
Anche in Scozia, dove Jonathan McKean-Litewski, un commesso 26enne, è stato di recente licenziato per essersi rifiutato di togliere un ciondolo con la stella di David, i rappresentanti ebraici del luogo sono così preoccupati per il crescente livello di antisemitismo da chiedere un incontro urgente con il primo ministro del Paese, Alex Salmond.
La reazione a questi episodi, in particolar modo da parte della stampa, è stata a dir poco sconcertante. In seguito ai casi di terrorismo islamico in Gran Bretagna o degli stupri di gruppo su bambini da parte di musulmani, i giornalisti hanno fatto del loro meglio per mettere in evidenza che nessuna comunità religiosa dovrebbe mai essere perseguitata per le azioni di pochi. Come osserva Jonathan Arkush, vicepresidente del Consiglio dei deputati degli ebrei britannici, “c’è un legame diretto tra i politici che dicono le cose e la gente che è incoraggiata ad andare ad attaccare gli ebrei. C’è un costante rullo di tamburi per un fermento antisraeliano che induce gli ebrei britannici a essere più preoccupati e più insicuri che mai”.
Non sorprende che il 63 per cento dei circa 260mila ebrei britannici ora metta in discussione il loro futuro nel Paese. Ma con “Guardian”, “Bbc”, ”Independent” e “Reuters” che attribuiscono l’ondata di aggressioni antisemite in Gran Bretagna al recente conflitto di Gaza, è interessante rilevare che anche se quest’estate c’è stata un’escalation innegabilmente forte e angosciante di un’impenitente espressione pubblica di odio per gli ebrei, le prove evidenziano qualcosa di più inquietante.
In realtà il numero degli episodi antisemiti in Gran Bretagna è aumentato del 36 per cento nei primi sei mesi del 2014, raggiungendo il suo livello più alto degli ultimi cinque anni, ben prima che le Forze di difesa israeliane avviassero l’operazione militare denominata “Margine protettivo” in risposta agli attacchi missilistici lanciati quotidianamente dalla striscia di Gaza.
È quasi come se la reazione dello Stato ebraico al lancio di razzi da parte di Hamas, dalle scuole, vicino gli ospedali e accanto a un edificio delle Nazioni Unite, avesse in qualche modo fornito un comodo pretesto per la manifestazione più violenta di un odio verso gli ebrei già preesistente, crescente e profondo in Gran Bretagna.
Da dove potrebbe derivare tutto questo? Chi cerca una risposta nelle notizie riportate nelle prime pagine dei giornali del Paese sui minacciosi episodi perpetrati lo scorso fine settimana contro i clienti di due importanti catene di supermercati fondate da ebrei potrebbe rimanere deluso.
Nel primo episodio, venti agenti di polizia sono dovuti intervenire quando una parte di un gruppo formato da un centinaio “di manifestanti scesi in piazza per protestare contro il conflitto nella striscia di Gaza” si è recata in un supermercato Tesco di Birmingham e, una volta dentro, ha cominciato a lanciare prodotti dagli scaffali. Un testimone, intervistato dal “Daily Mail”, racconta di aver sentito urlare degli slogan e poi di aver visto “entrare un gruppo di uomini asiatici con in mano delle bandiere palestinesi che hanno cominciato a far cadere la merce dagli scaffali, diventando aggressivi con il personale e i clienti. La polizia ha cercato di fermarli ma io sono corso fuori”.
Poiché negli scontri con i manifestanti è stato aggredito un poliziotto, ci si sarebbe aspettato che i politici britannici condannassero fermamente un comportamento del genere. Sbagliato. Al contrario, la deputata Shabana Mahmood, membro del gabinetto-ombra laburista, lo ha positivamente incoraggiato. Elogiando il proprio successo in un tentativo di intimidazione simile (a quello condotto nel supermercato Tesco) che ha portato una folla di duecento persone a picchettare un supermercato della catena Sainsbury’s a Birmingham riuscendo a farlo chiudere “per cinque ore di fila durante le ore di punta di un sabato”, la Mahmood ha continuato a caldeggiare, davanti a un pubblico che vociava il proprio consenso, l’efficacia delle “iniziative concrete che noi tutti possiamo promuovere perché il nostro governo drizzi le antenne”. Il video del discorso tenuto dalla Mahmood, deputata per Birmingham Ladywood a “un raduno di massa a favore di Gaza”, tenutosi a Hyde Park, a Londra, il 9 agosto scorso, è online.
Il secondo episodio di antisemitismo diretto contro un supermercato e accaduto nel fine settimana, per quanto non sia stato così violento, è apparso molto più preoccupante ed è stato dettato inequivocabilmente da motivi religiosi. Di fronte a una folla di manifestanti “anti-Israele” assiepati fuori dal supermercato della catena Sainsbury’s, nel centrale quartiere londinese di Holborn, il direttore, cedendo alle intimidazioni, ha fatto rimuovere dagli scaffali tutto il cibo kosher (carni, formaggi e salse) anche se era stato prodotto in Polonia e in Gran Bretagna. Il “Daily Mail” ha riportato quanto asserito da un cliente: “Immagino che stiate ritirando anche il cibo halal, in segno di protesta contro il massacro degli yazidi da parte dello Stato islamico”.
Quanto avvenuto nel supermercato di Holborn ha indotto Brendan O'Neill a condannare nelle pagine del “Daily Telegraph” “l’assoluta riluttanza da parte di persone e istituzioni influenti ad affrontare i sentimenti antisemiti” dilaganti nel Paese. Purtroppo, lo ha fatto dimostrando un’uguale riluttanza a parlare della sottile censura cui sono esposti giornalisti come lui in Gran Bretagna, quando si tratta di rivelare l’identità di chi mostra tali sentimenti.
Ma quando si parla di questi episodi non è mai menzionata la parola “musulmano”. Non è mai la persona che commette questo tipo di reati a essere considerata moralmente responsabile dai media o dai politici britannici. Questo onore è riservato a una nazione che si trova a oltre 2mila miglia di distanza, ossia Israele.
Ci si chiede per quale motivo sembri essere irrilevante che le normali famiglie britanniche che vanno a fare la spesa settimanale dovrebbero ritrovarsi vittime di simili “iniziative concrete”, a causa della popolazione di Gaza che sceglie di eleggere un partito dedito alla sterminio degli ebrei.
Di certo non occorre molta immaginazione per ipotizzare come sarebbe istantanea e inflessibile la reazione dei politici britannici e della stampa, se i cristiani che si oppongono al genocidio perpetrato dall’Isis in Iraq decidessero di andarsene in giro in massa a minacciare con violenza le attività commerciali musulmane.
Chiedere la rimozione dei prodotti alimentari halal, ad esempio, farebbe “drizzare le antenne del Governo britannico”, per usare le parole di Shabana Mahmood.
Traduzione di Angelita La Spada
di George Igler (*)