L’Italia e la guerra per conto dell’Onu

sabato 9 agosto 2014


Le operazioni militari chiamate di peacekeeping delle Nazioni Unite poggiano (come è ovvio che sia finché non esisterà un governo mondiale) sulle forze armate nazionali. Al 30 giugno l’Onu è stato così in grado di mettere in campo 84.327 soldati forniti da ben 123 Paesi. Forze che con le aggiuntive squadre di polizia e di Unmem sfiorano le 100mila unità. Gli europei non sembrano tra i più interessati: nell’insieme ci sono solo 91 norvegesi, 78 danesi e 68 svedesi, 48 greci e 2 ciprioti, 29 svizzeri, 18 sloveni e 2 bulgari, 6 cechi e 2 portoghesi. Lettoni, estoni e polacchi che ringhiano tutti all’indirizzo russo forniscono rispettivamente 5, 5 e 15 effettivi in tutto.

Si salvano solo i finlandesi con forze di 377 uomini. Sono 46 i bosniaci il cui Paese dipende per la sopravvivenza dall’Onu. I tedeschi 194, surclassati, date le proporzioni, dai 175 austriaci, 103 belga e 89 ungheresi. I francesi, così presenti in tutti i contesti bellici, vuoi con il frappé dei servizi vuoi con il frappé militare, sono solo 956, superati ampiamente dall’Italia i cui circa 1.200 militari vanno oltre a tutti gli effettivi transalpini. A ben guardare però tutte le grandi potenze militari sfuggono all’appello. Sono solo 109 i russi, 118 gli americani, 118 i canadesi e 285 gli inglesi a disposizione dell’Onu. Se ne deduce che chi le guerre le fa sul serio, le affronta in proprio, per poi lasciare i cocci alle truppe di riserva, quali i 1.824 uruguagi, i 1.643 brasiliani, gli 876 argentini, i 619 ucraini, i 217 serbi e i 98 slovacchi, i cui Paesi in fondo sono lieti di ricevere qualche finanziamento in più.

Quanto ai 271 giapponesi, servono a respingere le richieste americane tese al riarmamento nipponico. I 676 filippini rispondono all’invito yankee. Altri paesi sono super impegnati. Si pensi agli 8.123 indiani, ai 7mila bengalesi, ai 6.555 pakistani, ai quasi 2.000 cinesi, ai 1.700 indonesiani, ai 1.500 thailandesi, tutti dislocati a casa propria o nelle acque limitrofe infestate di pirati. Un modo per far pagare la comunità internazionale invece che ricorrere agli Interni. Lo stesso discorso vale per l’Africa, dove i caschi blu dell’Etiopia (più di 7mila), della Nigeria (4.717), del Ghana (quasi 3mila), del Niger (1.872), del Burkina Faso (1.700), del Chad (1.131), del Benin (1.000) e del Kenya (904) si confondono con le tante truppe legittime e no, che corrono nel continente nero.

Spesso devono difendere le proprietà delle blue chip globali ma certamente non si occupano di flussi migratori se non forse al peggio. Non si può negare lo stendardo Onu ai 2.385 giordani, ai 2.213 egiziani ed ai 2.145 marocchini visto quello che è appena successo e quello che è in corso. I turchi invece, con gli striminziti 162 effettivi blu, fanno da sé. Ancor più gli iraniani i cui 2 poliziotti coinvolti scortano i controllori di impianti nucleari. L’Italia, dunque, assai poco coinvolta materialmente ed emotivamente nei conflitti mondiali, sui quali è ancor meno consultata, si trova nella strana posizione di essere un Paese super indebitato, ma superpagatore, superpacifista ma superfornitore di uomini e risorse militari in giro per il mondo.

Una posizione condivisa con la Spagna dei 609, che non è però né superpagatore, né superpacifista e con l’Olanda dei 576 che non è però super indebitato. Una posizione unica, di abnegazione e condivisione di politiche estere altrui che si traducono nel suicidio dell’interesse italiano, oltre che del buon senso. Corredata dallo sberleffo dei due oceani, quello occidentale dove resta impunito l’assassino Cesare Battisti, e quello orientale dove due militari, membri del consistente impegno italiano alla causa internazionale, restano prigionieri di un Paese sulla carta paralleato. Per quanto l’Italia sia il primo Paese europeo in termini di sostegno militare all’Onu, non è venuto un aiuto per la liberazione dei marò dall’organizzazione mondiale che come è noto è sempre anti occidentale, in questo come in tutti gli altri temi.

Da un paio di decenni sono scorse pagine sulla necessità di rivedere l’Onu, i suoi meccanismi e soprattutto i suoi funzionari; ma sull’organismo mondiale di evidente inutilità, non arriva mai il tempo di una spending review. La speranza che in un sussulto di orgoglio fosse stata, se non ridotta, annunciata la diminuzione dell’impegno è andata vana. A riguardo fanno il nesci le nostre ministre Gianna e Pinotto, al momento in vagabondaggio per quei paesi, prova provata della follia degli ultimi anni di politica estera occidentale, dall’Egitto all’India. Avranno finito per premiare qualche casco blu locale, chiamandolo Kammamuri e Ali Babà.


di Giuseppe Mele