Striscia di Gaza, le ragioni dietro la crisi

martedì 15 luglio 2014


L’escalation militare a Gaza e in Israele trae probabilmente origine da motivi più profondi rispetto all’uccisione dei tre giovani coloni ad Hebron, in Cisgiordania, e alla successiva morte di un giovane palestinese a Gerusalemme Est.

I falchi in Israele, da una parte, e Hamas, dall’altra, vedono, nel progressivo degenerare della situazione, un’occasione per ‘regolare i conti’; Netanyahu che, in un primo momento sembrava voler limitare la crisi seguita dalle morti dei giovani israeliani e del palestinese, sta cedendo alle pressioni di Naftali Bennett, capo del partito Bayit Yehudi e del ministro degli Esteri, Avigdor Liberman del movimento Yisrael Beytenu, sempre più vicini alle istanze dei conservatori che riscuotono molto consenso tra i coloni e che chiedono un’offensiva militare terrestre nella Striscia di Gaza contro Hamas.

Per la destra israeliana al Governo, vi è un’unica regia di Hamas dietro l’uccisione dei giovani coloni e i lanci di razzi da Gaza verso Israele; l’operazione Protective Edge dell’aeronautica israeliana, con la quale vengono colpite dal cielo le basi di lancio dei missili e altri obiettivi sensibili di Hamas, non avrebbe prodotto i risultati sperati dal capo di Stato Maggiore, Benny Gantz. Così è stato ordinato alla fanteria israeliana di pianificare l’avanzata sul terreno.

L’interesse di Hamas di soffiare sul fuoco, alimentando l’ennesima crisi regionale, è legato alla difficoltà che il movimento sta vivendo. L’obiettivo, a detta di molti, è la sopravvivenza. Sempre più indebolito sul piano interno, nonostante il suo accordo di riconciliazione con l'Olp di Mahmoud Abbas, ed esterno, abbandonato dall’Egitto a seguito della caduta di Morsi, dalla chiusura dei tunnel sulla frontiera egiziana e dal ridimensionamento del ruolo regionale del Qatar, il movimento islamista è sull’orlo della bancarotta, non essendo in grado di pagare nemmeno i dipendenti pubblici a Gaza. Gli uomini dell’organizzazione palestinese stanno perdendo il controllo nella Striscia a vantaggio dei gruppi estremisti armati, quali la Jihad islamica, i salafiti vicini ad al-Qaeda e il Comitato di resistenza popolare, che stanno approfittando del momento per raccogliere appoggi tra la popolazione esasperata.

Hamas, dunque, cercherebbe di conseguire contro il nemico odiato di sempre vittorie ‘spettacolari’ che gli facciano riguadagnare spazio e consensi tra i palestinesi della Striscia di Gaza; l’abbattimento di un aereo con la stella di Davide, l'infiltrazione di un commando in Israele o razzi al centro di Tel Aviv verrebbero salutati dalle masse di Gaza come un segno della riscossa di Hamas.

Una ritrovata posizione di forza consentirebbe, poi, ai dirigenti del movimento islamista di tornare a contare sul tavolo dei negoziati, ora di fatto monopolizzato dagli uomini di Abu Mazen, oltre a chiedere più potere in un governo di coalizione palestinese e ottenere l’alleggerimento del blocco imposto da Israele e dall’Egitto del generale Al Sisi sulla Striscia di Gaza, dove le condizioni di vita non sono mai state così depresse come negli ultimi tempi.

Israele, con un’azione militare terrestre a Gaza contro Hamas, nel suo momento di maggiore debolezza, potrebbe conseguire l’eliminazione totale del movimento islamista. Due sono i piani a cui starebbero lavorando i generali israeliani. Il primo riguarda un’azione di lunga durata, capillare, con grande dispiego di forze, che mirerebbe a neutralizzare infrastrutture di Hamas nella Striscia; Il secondo verte su un’operazione più breve e più contenuta, con minore rischio di perdite, preferita dalla opinione pubblica israeliana, che avrebbe l’obiettivo di indebolire la capacità militare delle organizzazioni armate a Gaza con interventi mirati e l’uso di forze speciali.

I dirigenti di Hamas, a quanto pare, non ritengono che Israele possa lanciarsi in un'operazione di terra, forti della convinzione che occupare la Striscia di Gaza è molto difficile (il costo in termini di vite umane per entrambi sarebbe esorbitante). E’ per questo che i capi del braccio armato di Hamas avrebbero ordinato di intensificare il lancio di missili su Israele, almeno per i prossimi giorni. Il calcolo che fanno Marwan Issa e Mohammed Deif, i capi militari del movimento, è che in questo modo Hamas possa riguadagnare, sul terreno della lotta contro il nemico di sempre, la leadership sugli altri gruppi palestinesi più estremisti.

Iron Dome israeliano e colpire il centro di Tel Aviv o provocasse la prima vittima civile in Israele, i tempi di un intervento militare terrestre israeliano accelererebbero in maniera drammatica.

Gli esperti israeliani hanno calcolato che Hamas avrebbe la capacità di resistere a un attacco dell’esercito israeliano per almeno sei settimane, con un arsenale stimato in circa 10mila missili. Dopo l’operazione ‘Pilastro di Difesa’ condotta da Israele a Gaza nel 2012, Hamas si è riorganizzato, con il sostegno anche dell'Iran. Molte armi sono arrivate dalla Siria, transitate per i tunnel nel Sinai con la complicità dell’Egitto di Al Morsi. Le Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, disporrebbero di diverse migliaia di razzi Fajr-5 di fabbricazione iraniana, con gettata di 75 chilometri, (che possono raggiungere la periferia di Tel Aviv) M75 assemblati a Gaza e gli ultimissimi M-302, di produzione siriana, in grado di arrivare a 120 e a 160 chilometri. Con questi missili di nuova generazione, Hamas può colpire da Gaza qualunque obiettivo in Israele. Gli islamisti hanno anche addestrato forze speciali, uomini rana che dal mare possono compiere raid in territorio israeliano.

Mentre Israele prepara l’attacco terrestre e Hamas continua a lanciare razzi, il mondo assiste impotente. I tentativi di mediazione fin qui condotti appaiono vani. Gli americani scontano il fallimento della recente missione nella regione del segretario di Stato John Kerry e l’Unione Europea non sembra avere l’autorità per mediare con Israele. Tutti gli occhi sono puntati verso l'Egitto, il mediatore storico nelle crisi precedenti. Il portavoce del Governo al Cairo ha confermato alcuni primi contatti con i palestinesi a Gaza, a Ramallah e con Tel Aviv, che non hanno prodotto risultati incoraggianti.

Tuttavia, per molti la mediazione del Cairo è destinata a fallire perché l’Egitto di Al Sisi è meno incline dei passati regimi a quel ruolo: come Israele, Al Sisi vede Hamas e il movimento dei Fratelli musulmani come una minaccia e la stabilizzazione del Sinai come una priorità. Il Cairo ha chiuso da più di un anno la frontiera con Gaza e ha incrementato la sorveglianza sui tunnel sotterranei, contribuendo all’indebolimento di Hamas nella Striscia. Eppure, un eventuale intervento militare a Gaza delle truppe di terra israeliane rischierebbe di provocare la destabilizzazione del Sinai e potrebbe costituire un serio problema, tanto per Tel Aviv quanto per il Cairo.

Anche la Russia e la Turchia di Erdogan seguono da vicino l’evolversi degli eventi e potrebbero assumere un ruolo di mediazione. Speriamo che le ragioni umanitarie possano prevalere nelle prossime ore sulle spinte più estremiste, facendo cessare le armi (da una parte e dall’altra) e impedendo l’ennesimo inutile bagno di sangue.


di Paolo Dionisi