Israele, Medio Oriente e dissonanza cognitiva

sabato 12 luglio 2014


Per quanto mi sforzi, ci sono alcune cose che proprio non comprendo. Tanto per cominciare, sto cercando di capire quali siano le opzioni per Israele nell’odierno Medio Oriente. Ad ascoltare alcuni commentatori nei media e nei ministeri degli esteri, tutto sembra allo stesso tempo molto semplice e sconcertante; semplice perché la risposta è ovvia, e sconcertante perché per qualche motivo Israele pare essere l’unica nazione che proprio non vuole capire. Questi commentatori insistono nel dire che, mentre i palestinesi cercano la pace e la regione è d’accordo, Israele - per motivi a noi sconosciuti - rifiuta ogni intesa, preferendo lo status quo piuttosto che l’alba di una nuova Era.

La maggioranza degli israeliani e dei suoi alleati vedono una realtà diversa. Essendo sempre stato a favore di una soluzione a due stati, mi rendo conto che qualunque siano i rischi di un tale accordo, le alternative sono molto più pericolose per il futuro a lungo termine di Israele. Quale nazione che non abbia conosciuto un solo giorno di vera pace nei suoi sessantasei anni di esistenza, e che si trovi costretta in continuazione a dover difendere il proprio diritto a esistere, non farebbe tutto il possibile per raggiungere un patto che prometta un nuovo inizio?

È anche vero che in Israele c’è un manipolo di estremisti – non esiste una nazione che non abbia i suoi – i quali credono che a guidare le loro azioni non debba essere un Governo eletto ma una “autorità superiore”, e che complottano per portare la morte violenta contro primi ministri in carica o contro i vicini arabi. Essi non vanno confusi con la stragrande maggioranza dei cittadini israeliani che cercano la pace.

Ma qui sorge il problema: il Medio Oriente, che non è mai stato un’oasi di serenità, sta diventando sempre più pericoloso e imprevedibile. E il Medio Oriente è la regione in cui è collocato Israele, non un’entità geografica distante e questo rende ancora più sfuggente la possibilità di raggiungere la pace. Prendiamo la Siria.

Le nazioni europee stanno cominciando a capire che non è così lontana come potrebbe sembrare guardando un mappamondo. Migliaia di europei vi si sono recati per combattere nella Jihad e l’Europa ora teme che al loro ritorno questi veterani, gonfi di esperienze di combattimento, possano sognare il prossimo fronte. Un esempio potrebbe essere stato quello che è accaduto a Bruxelles a maggio, quando quattro persone sono state uccise nel museo ebraico. Il sospetto, arrestato dalle autorità francesi, aveva combattuto in Siria. La stessa Siria che confina a nord di Israele.

Il presidente siriano Assad gode del supporto delle forze di Hezbollah (del loro addestramento e dei fondi iraniani), che hanno il quartier generale in Libano. Lo stesso Hezbollah che urla a gran voce per la distruzione di Israele e che ha ammassato un arsenale di decine di migliaia di missili mortali. Anche il Libano confina con Israele.

E come se questi pericoli non bastassero, il mondo si è anche accorto della minaccia dell’Isis, che aspira al Califfato e che ha ottenuto risultati evidenti in Iraq e in Siria, accompagnati da un livello di brutalità che è riuscito a scuotere persino una regione che ne ha già viste di tutti i colori.

Israele e le forze dell’Isis in Iraq sono separate solo da una fragile Giordania, un Paese che non potrebbe difendersi da un attacco massiccio se non, forse, con l’aiuto di forze straniere.

L’Iran rimane sempre una minaccia incombente nella coscienza di Israele viste le sue ambizioni nucleari, il suo programma missilistico, il suo supporto a gruppi terroristici, il suo passato di inganni, il suo desiderio di un mondo privo di uno stato ebraico e la sua convinzione che riesca a farla comunque in barba all’Occidente.

Se si trovano a 1200 chilometri a est del confine israeliano, i missili dell’Iran hanno la capacità di raggiungere quel territorio, così come possono raggiungerlo i missili dei rappresentanti iraniani, Hamas ed Hezbollah. E a proposito di Hamas, rimane sempre la questione palestinese.

Sentiamo di nuovo le solite voci familiari provenire dall’Europa e altrove che premono per una nuova iniziativa di pace e che desiderano castigare o addirittura “punire” Israele perché non si muove abbastanza in fretta. Ma anche qui ci troviamo di fronte ad un caso di dissonanza cognitiva.

Il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha deciso di unire le proprie forze con quelle di Hamas, formando un Governo di unità con un gruppo terroristico che desidera la distruzione di Israele. Che sia un Governo composto da tecnocrati non cambia la natura essenziale di quel che ha fatto. Sapeva già che tale mossa avrebbe eliminato ogni possibilità di rivitalizzare il processo di pace. Si trattava di una linea rossa per Israele.

E ovviamente, appena trovatosi al riparo nel Governo di unità che ha ricevuto l’immediato beneplacito degli Usa e della Ue, Hamas non si è fatta attendere: ha rapito e assassinato tre ragazzi israeliani, oltre ad aver lanciato dozzine di razzi in aree popolate israeliane.

C’è chi è alle solite maniere e ha cominciato a chiedere la fine della “spirale di violenza”. Può mai esserci equivalenza morale tra una nazione democratica che combatte per difendere i propri cittadini e un gruppo terroristico che li vuole uccidere? Eppure ad ascoltare quegli stessi commentatori, uno potrebbe pensare che l’unica barriera alla pace siano gli insediamenti israeliani.

A malincuore faccio tanto di cappello ai palestinesi per le ottime pubbliche relazioni. Persino quando ogni premier israeliano che sia stato di destra, di centro o di sinistra, a partire da Shimon Peres ha provato a raggiungere la pace con i palestinesi a seguito degli accordi di Oslo del 1993 solo per trovarsi davanti ad un rifiuto, continua a circolare la leggenda che sia Israele ad essere responsabile per lo stallo. Mentre Israele ha offerto un piano dopo l’altro per un accordo a due stati basato su un ritiro sostanziale dalla Cisgiordania e sugli scambi territoriali, la rimozione degli insediamenti e persino sulla divisione di Gerusalemme, i palestinesi, guidati dal presidente Abbas dal 2005, hanno sempre trovato un pretesto a loro conveniente per dire di no o per chiedere sempre di più.

E noi dovremmo credere che le responsabilità gravino su Israele, come se i fatti storici non esistessero, non esistesse il Governo di unità con Hamas, non esistessero i missili che piovono sugli israeliani e che la regione già precaria in cui si trova Israele non stia andando di male in peggio. È il momento di finirla con questa dissonanza cognitiva ed è necessario vedere le cose come sono veramente. Non è un bello spettacolo. Vorrei che non fosse così. Ma guardare dall’altra parte e ignorare la realtà non è una strategia per il Medio Oriente.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee


di David Harris *