Hong Kong si risveglia nel totalitarismo

giovedì 3 luglio 2014


Repressione poliziesca a Hong Kong, dopo la lunga marcia indipendentista. La città-stato cinese è diventata l’isola dei paradossi. È la città-stato più liberale del mondo, sempre in testa alla classifica dell’Index of Economic Freedom. Eppure fa parte, almeno sulla carta, della Repubblica Popolare Cinese, un regime totalitario dove l’economia è ancora solo parzialmente libera e privata. È anche una città-stato ricca, con un Pil pro-capite di 52.722 dollari, il settimo più alto nel mondo secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (l’Italia, giusto per fare un paragone, ha un Pil pro-capite di 30.289 dollari, 31ma nel mondo). Eppure è inserita nella Repubblica Popolare Cinese, che è una delle economie più povere del globo, nonostante la propaganda martellante sulla sua crescita impetuosa: un Pil pro-capite di 9.844 dollari, 93ma nel mondo.

A Hong Kong, ogni anno, il 4 giugno, si celebra l’anniversario della strage di regime in Piazza Tienanmen, la stampa è libera e i media sono tutti di proprietà privata. Eppure è solo una regione autonoma della stessa Repubblica Popolare Cinese in cui la strage di Piazza Tienanmen è ufficialmente cancellata da Internet e da tutti i libri, i media sono censurati e controllati dal governo, nessuna televisione, radio o testata giornalistica è di proprietà privata.

Hong Kong, non solo è una realtà completamente differente rispetto al Paese di cui fa ufficialmente parte. È ormai diventata un esempio concreto di storia contro-fattuale: “se” la Cina non fosse mai stata comunista, sarebbe come quella città, che ha lo stesso popolo, la stessa cultura, la stessa lingua, ma solo una storia recente diversa, solo perché ha avuto la fortuna di essere sotto l’Impero Britannico invece che sotto Mao Tse-tung.

Almeno fino al 1997, quando è stata inglobata di nuovo dal regime di Pechino, dietro la promessa di mantenere una piena autonomia. Ma quanto è disposta la Cina comunista a mantenere i patti? Probabilmente no. Per sensibilizzare il mondo sulla possibile perdita di libertà e di caduta di una città libera nelle sgrinfie del totalitarismo, dal 1997 ad oggi, il Fronte dei diritti umani e civili, un’organizzazione ombrello che raccoglie movimenti liberali, democratici e cattolici, organizza una “Marcia del Primo Luglio”, da Victoria Park fin sotto al Central, l’ufficio del governo cinese.

L’edizione del 2003 finora era ricordata come la più frequentata: mezzo milione di manifestanti in marcia, soprattutto per protestare contro l’introduzione (per volontà di Pechino) dell’articolo 23, la nuova legge sulla sicurezza di stampo totalitario. L’edizione di questo primo luglio è stata ancor più frequentata. Le stime parlano di almeno 550mila presenze. Il successo è dovuto alla mobilitazione referendaria del 20-29 giugno. A scopo puramente dimostrativo, infatti, il movimento civile Occupy Central, ha organizzato un referendum, in cui si chiede l’elezione diretta, con suffragio universale del governatore e dei deputati. Di fatto si trattava di un referendum per l’indipendenza.

Il referendum è stato boicottato da un massiccio attacco hacker. Non se ne conosce la provenienza, ma è noto a tutti che la Cina sia all’avanguardia nella strategia e nella qualità degli attacchi informatici, sin dalla seconda metà degli anni Novanta. Dopo questa forma di boicottaggio, è seguita la repressione a faccia scoperta, condotta dalla polizia locale ma chiaramente ispirata altrove: sono più di 500 le persone arrestate. Tutte hanno partecipato alla marcia del primo luglio. I capi di accusa sono incredibili: chi è in carcere perché portava un cacciavite (ritenuta un’arma pericolosa), chi per non ben specificati “disordini”. Fra gli arrestati ci sono anche i deputati liberali Lee Cheuk-yan, Albert Ho Chun-yan e Leung Yiu-chung. La maggior parte dei fermati sono stati rilasciati in giornata, dietro pubblica ammonizione. Giusto per spaventarli un po’. Più di un centinaio di manifestanti sono invece ancora in carcere. Pechino ha ricordato alla liberale Hong Kong che fa pur sempre parte di un regime totalitario.


di Stefano Magni