Juncker “aumenta” il deficit democratico

mercoledì 2 luglio 2014


Chi ha votato Partito Democratico alle elezioni europee ora scopre di essere un sostenitore del democristiano Jean-Claude Juncker. Gli elettori democratici sono stati, volenti o nolenti, grazie all’uso che Matteo Renzi ha fatto della dote ricevuta, una risorsa eccezionale per fare del lussemburghese il nuovo presidente della Commissione Europea.

Nella scelta dell’Eurogruppo il voto della sinistra italiana, dopo gli anni del massimalismo isterico contro la destra al potere, ha avuto quattro caratteristiche totalmente contraddittorie. Caratteristiche che hanno pesato perché, alla luce del voto, il Pd italiano è il più forte tra i partiti del Partito socialista europeo (Pse). In primis, l’Italia di Renzi ha scelto di sostenere il blocco dell’Europa germanizzata. La Germania nel 2011 dimostrò di essere in grado di colpire finanziariamente l’Italia, cui riuscì ad imporre due governi e modifiche costituzionali. Con Renzi l’Italia doveva recuperare almeno l’autonomia della scelta del premier. In realtà la preoccupazione del premier toscano è stata quella di farsi accettare dal governo di Berlino, ha fatto del suo meglio aderendo pienamente al candidato presidente sostenuto dalla Germania.

Due, l’Italia di Renzi sostiene l’austerità, la scelta di Juncker al posto del democristiano portoghese Josè Manuel Barroso sposta a nord il centro dell’Europa quando i problemi principali del continente sono nel suo meridione. Nel periodo Barroso l’attenzione al sud Europa è stata molto scarsa, ma ora rischia di diventare nulla. A parte i funambolici giochi di parole, nulla lega il nuovo presidente ad impegni effettivi di crescita che significano il via libera all’aumento dell’inflazione e dei grandi investimenti. Anzi. Renzi ha tenuto a rimarcare quanto l’Italia contemporanea (degli ultimi 5 premier) sia virtuosa grazie ai saldi statali positivi, al netto del debito ed al rifiuto di sforare la soglia del 3 per cento, violato invece dalla Germania in passato. Più tedesco dei tedeschi, una garanzia.

Terzo, l’Italia di Renzi conferma l’impostazione, anch’essa d’ispirazione tedesca, della grosse “koalition”. L’alternativa tra destra e sinistra sta diventando in Europa una parola vuota. In Germania lo è da tempo. Il Partito Socialdemocratico di Germania (Spd) e l’Unione Cristiano Democratica di Germania (Cdu) si posizionano nello stesso spazio politico, solo guardando un po’ di più la prima a sinistra e la seconda a destra. In Italia, lo sviluppo è ancora peggiore o, come si diceva una volta, falso e bugiardo. Il programma che il premier ha in mente, e in parte ha esplicitato, non è di sinistra ma di destra: antipopolare, antisindacale, assimilabile alla destra storica della tassa sul macinato. Pur se limitata all’alleanza di piccole parti di destra e di centro, il suo resta nello spirito un governo di larghe intese.

Questo meccanismo centrista omnicomprensivo, però, ben presente anche nel Parlamento Europeo dove i popolari sono più vicini ai socialisti che alle altre formazioni di centrodestra, è responsabile della morte del dibattito europeo, schiacciato da una sorta di pensiero unico autocelebrativo. Infine, l’Italia di Renzi, quella che vorrebbe semplificare al massimo o eliminare prefetti, segretari comunali, Province, Senato e Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) si ferma davanti al meccanismo ipocrita e strumentale dell’enorme frammentazione nazionale europea. Con mezzo milione di abitanti, per quanto sede di istituzioni comunitarie, il Lussemburgo è un non Stato moderno, l’unico granducato al mondo che l’Unione avrebbe dovuto sciogliere in sé e che, invece, assume sempre maggiori poteri come avatar politico della Germania.

Come Stalin volle tre voti all’Onu (per Russia, Ucraina e Bielorussia), così Berlino ne ha due. Con questo spirito l’Italia dovrebbe imporre l’entrata nell’Unione di San Marino, che almeno ha il merito di essere la più antica repubblica ancora esistente. La frammentazione dei 28 Paesi membri viene sostenuta in maniera suicida da Bruxelles e le ammissioni non chiedono mai ai nuovi Paesi membri, dai pochi milioni di abitanti e dai Pil bassi, forme di aggregazione regionali che utilmente semplificherebbero le istituzioni continentali. Lo stesso passaggio presso l’Europarlamento (previsto per il 16 luglio) dell’elezione del presidente della commissione, dopo la candidatura adottata dai governi nazionali dell’Eurogruppo, è un’ulteriore complicazione. Le larghe intese dell’Eurogruppo e dell’Europarlamento smentiscono toni, proposte e promesse delle campagne nazionali senza aggiungere e raggiungere l’effettiva rappresentanza degli uomini e delle donne scelte.

Le presidenze almeno di Eurogruppo, Commissione e Banca centrale dovrebbero essere espresse dal voto elettorale e non dalla cooptazione di vertice. L’ennesima contraddizione, fuori sacco, è che l’Italia di Renzi non è un’eccezione all’Europa dominata a suon di voti dalle destre. Nell’inversione dei ruoli politici anche l’Italia, per i motivi già citati, è in realtà schierata a destra; in una destra usuraia e aristocratica, solo apparentemente alla mano. I tempi, d’altronde, si sono fatti maturi per il riaffiorare degli interessi nazionali e macroregionali che travalicano gli schieramenti politici di destra e sinistra.

Juncker sarà commissario presidente per il voto del blocco germanico cui si sono accodati Scandinavia e sud Europa. Fino all’ultimo, incluso il voto ufficiale, si sono espressi contro Gran Bretagna e Ungheria, due Paesi estranei alla valuta euro. Per l’inglese David Cameron vale il rifiuto espresso di un’Europa troppo burocraticamente integrata, ma soprattutto quello inespresso verso un continente a guida tedesca. L’Unione nacque come alleato politico di terra del blocco occidentale antirusso. Malgrado la sconfitta registrata, l’Uk è in grado di opporsi allo sviluppo di un’idea d’integrazione europea che non abbia come massima priorità l’atlantismo.

Per andare da Bruxelles a New York si passa da Londra, che è al tempo stesso vigile dei suoi interessi e di quelli più generali anglosassoni in Europa. Con Cameron si è schierato il premier ungherese Viktor Orban, uno dei leader più popolari dell’euroscetticismo e del rifiuto delle ingerenze degli istituti finanziari internazionali. L’opposizione ungherese è stata una rivalsa al pressing europeo che ha scomunicato i governi di Orban e le sue modifiche costituzionali.

C’è di più, però, mentre l’Europa si orienta ad affidare la sua politica internazionale al ministro degli esteri polacco, Radoslaw Sikorski, cioè alla voce più guerrafondaia ed antirussa del continente, l’Ungheria si sta sbilanciando, se non in una posizione filorussa, almeno in quella neutrale. Il suo voto negativo indebolisce la voce europea, per esempio, sulla questione ucraina, sulla quale gli Usa inutilmente richiamano gli europei al massimo impegno. Il “no” al paratedesco Juncker è stato espresso dunque da due Paesi da posizioni opposte. La Svezia, in un primo momento negativa, si è poi ritirata rientrando nella vasta maggioranza. Tutti e tre i partiti al governo contrari al candidato della destra europea sono di destra, quello inglese in un gruppo proprio, gli altri addirittura membri dei popolari. Hanno o avrebbero voluto votare contro il candidato del proprio partito. Nell’Unione il blocco della grosse koalition sta distruggendo il significato del senso stesso dei partiti.

La frammentazione di ben 4 gruppi (Alde, Ecr, Eaf ed Efd) può abbattere la forza delle posizioni euroscettiche. Gli eletti di Forza Italia, quasi euroscettica, sono quasi un corpo estraneo tra i popolari supereuropeisti. In ogni caso ci rimette il processo democratico elettorale, fortemente minato dal contributo del primo partito italiano. Malgrado gli sforzi, il deficit democratico corre ancora più di quello economico.


di Giuseppe Mele