Tre colpi inferti al cuore di Israele

mercoledì 2 luglio 2014


Gilad Shaer, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah, due sedicenni e un diciannovenne, erano tre studenti di una scuola rabbinica di Gush Etzion, un insediamento ebraico nei pressi di Hebron, città santa dell’ebraismo (luogo delle Tombe dei Patriarchi) che la confusa geopolitica mediorientale ha relegato nel bel mezzo dei territori palestinesi. Il 12 giugno scorso, volevano solo tornare a casa, facendo l’autostop, come tanti altri ragazzi israeliani, quando sono incappati nelle persone sbagliate, vestite come altri ebrei ortodossi e con la radio sintonizzati sulla radio di Gerusalemme. I tre autostoppisti non erano soldati, non erano coloni armati, ma erano ebrei. E questo basta e avanza, per gli estremisti palestinesi, per considerarli un obiettivo da distruggere. Caricati sull’auto, trasportati nella cittadina palestinese di Halhoul, a meno di un quarto d’ora di guida dal luogo dell’autostop, sono stati assassinati. I loro carnefici hanno infierito sui corpi, prima di seppellirli sotto un mucchio di sassi.

Per diciotto giorni dei tre ragazzi non si è saputo nulla. Israele è rimasto col fiato sospeso per i tre dispersi, organizzando manifestazioni e concerti in solidarietà alle famiglie dei rapiti. Intanto lo Shin Beth (il servizio segreto interno) lanciava una complessa operazione di ricerca, mettendo assieme i pezzi di un complesso puzzle costituito da testimonianze, confessioni di detenuti e intercettazioni. Dopo la drammatica scoperta dei corpi, in Israele prevale la costernazione. Anche perché non si tratta di un atto di violenza isolato: il rapimento è solo un gradino in più di un’escalation di azioni terroristiche di Hamas (lanci di razzi da Gaza), a cui l’aviazione israeliana sta rispondendo colpo su colpo. Il rapimento dei tre ragazzi e il loro ritrovamento è però il capitolo più doloroso. Un conto è la guerra, con i suoi rischi, il suo dolore ormai abituale e i suoi caduti, tutt’altro è l’omicidio a freddo di tre giovani, che non erano né soldati, né politici, ma solo studenti capitati nell’auto sbagliata, nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

Israele ha sempre fatto di tutto per recuperare ogni singolo cittadino, seguendo una filosofia di vita per cui nessuno deve essere lasciato indietro. I governi di Gerusalemme, di destra e di sinistra, non si sono mai tirati indietro quando c’è stato da trattare. Non hanno mai lesinato gli scambi: 1000 prigionieri in cambio di 1 solo Gilad Shalit, 1999 in cambio dei 2 corpi senza vita di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, assassinati dai loro rapitori. Ma in questo caso non c’è stato alcun margine di trattativa, alcuna proposta di scambio. Trovare corpi esanimi di tre ragazzi, trucidati e malamente nascosti, è stato uno sfregio inaccettabile per tutta la nazione israeliana.

E poi è iniziato subito il balletto dello scaricabarile da parte delle autorità palestinesi, che in teoria amministrano Hebron e avrebbero dovuto cercare e catturare i rapitori. Due di questi sospetti e almeno 276 dei 419 detenuti, arrestati perché coinvolti nel caso, sono membri del partito armato Hamas, ma il movimento islamista palestinese nega ogni responsabilità. E intanto, però, le sue milizie continuano a lanciare razzi contro gli israeliani: 18 nella sola giornata di lunedì, a cui l’aviazione ha risposto colpendo una trentina di obiettivi. Hamas nega, ma rilancia: “Ogni offensiva israeliana spalancherà le porte dell’Inferno” recita lo scarno comunicato del movimento.

L’Autorità Palestinese ha cooptato il mese scorso Hamas in un governo di unità nazionale. E fra i suoi cittadini, oltre che fra molti arabi israeliani, si diffonde la gioia per il triplice omicidio. Una pagina Facebook di studenti arabi del Technion recita: “Un record! Tre gol della nazionale palestinese, nonostante l’assenza dai Mondiali!”. È solo un esempio dei tantissimi, anche fra sostenitori italiani della causa palestinese, che hanno mandato foto, commenti, ingiurie, infangando la memoria delle tre vittime. Oggi, parlare di “processo di pace in Medio Oriente” sembra una brutta, grottesca battuta di umorismo nero.


di Stefano Magni