Iraq, ora i nodi vengono al pettine

sabato 14 giugno 2014


Ridateci Saddam? Il titolo sarcastico, comparso su “Il Giornale” sull’articolo di Livio Caputo (e senza neppure il punto di domanda) è motivato dalla guerra civile nuovamente scoppiata in Iraq. C’è anche da chiedersi quando mai vi sia stata la pace.

La questione irachena si è riaperta gradualmente da gennaio, quando le milizie dell’Isis (acronimo di Esercito dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), una formazione jihadista legata ad Al Qaeda, dalla Siria ha iniziato a sconfinare nel vicino Iraq, luogo di provenienza di molti suoi membri.

L’inverno scorso, due province, Samarra e Falluja, erano state messe a soqquadro da poche migliaia di determinati jihadisti. Già allora l’esercito iracheno aveva dato una pessima prova di sé. Ma si trattava solo di una ricognizione in forze. Perché la vera offensiva qaedista è partita solo questo mese di giugno, con un attacco in forze su Mosul. Sedi istituzionali, carceri, caserme sono state espugnate facilmente, con un attacco dall’esterno sostenuto da ben mirate azioni all’interno della città. Dalla sera alla mattina il governo iracheno ne aveva perso il controllo. Lo stesso copione si è ripetuto anche a Tikrit (città natale di Saddam Hussein), Suleiman, Ramadi e Falluja, un percorso che inesorabilmente sta portando le milizie estremiste verso Baghdad, ormai a portata di mortaio. A Kirkuk i qaedisti non sono riusciti ad arrivare solo perché è sotto il controllo di altre milizie irregolari: quelle curde. Anche qui, però, l’esercito iracheno si è dissolto come neve al sole.

Lascia stupefatti un risultato così impressionante in così poco tempo ottenuto da così poche forze (poche migliaia di volontari armati alla leggera). La spiegazione non va trovata tanto nella bravura dei comandanti jihadisti: fra loro non c’è un Garibaldi, né un nuovo Rommel. Semmai è l’inesistenza dell’esercito iracheno che sta permettendo al primo arrivato di espugnare mezzo Paese quasi senza combattere. Testimonianze da Mosul, parlano di soldati che abbandonano armi, divisa e scappano in abiti civili o in mutande. A Mosul i miliziani dell’Isis hanno potuto catturare anche elicotteri e carri armati abbandonati dai regolari in fuga. Quelli che non sono stati catturati non hanno fatto a tempo a ritirarsi e sono stati distrutti sul posto dagli artificieri. Un disastro simile è difficilmente spiegabile, alla luce del grande investimento di tempo, denaro e uomini effettuato dagli Usa dal 2003 ai giorni nostri. Subito dopo la guerra che defenestrò Saddam Hussein, con una scelta che per molti analisti statunitensi resta discutibile, la nuova amministrazione provvisoria dell’Iraq sciolse la polizia e la Guardia Nazionale dell’ex dittatore, per rimpiazzarle con formazioni militari che ripartivano praticamente da zero. A undici anni di distanza, gli americani si sono ritirati (dal 2011), ma il nuovo esercito iracheno continua ad essere armato, addestrato ed equipaggiato a spese del contribuente statunitense. Attualmente, sulla carta, è uno dei più moderni e potenti della regione. E quindi, cosa non funziona? Manca una cosa fondamentale, che nessun aiuto americano o internazionale, per quanto miliardario sia, può fornire: manca una identità nazionale. Nel Nord dell’Iraq, dove attualmente si combatte, i sunniti non hanno alcuna intenzione di combattere contro altri sunniti (Isis) per difendere un governo sciita (quale è quello di Al Maliki a Baghdad) che li discrimina e minaccia persecuzioni. Allo stesso tempo, gli sciiti fatti affluire dal Sud, non hanno alcuna intenzione di combattere per difendere comunità sunnite, dall’attacco di altri sunniti che, più che invasori, vengono accolti come fratelli e correligionari. I curdi, poi, sono un altro discorso ancora: non vogliono in casa loro, né i soldati regolari, né i miliziani dell’Isis e stanno approfittando del caos per raggiungere l’indipendenza, l’unico obiettivo che interessa veramente a loro. L’esercito regolare, composto da una maggioranza sciita, non ci pensa nemmeno di combattere e rischiare la pelle per i curdi. Il risultato: già prima dell’offensiva jihadista del Nord iracheno, fra gennaio e maggio, i disertori si contavano nell’ordine dei 300 ogni giorno. In questi giorni è difficile trovare un solo soldato determinato a combattere.

La risposta, più che dai regolari, sta iniziando ad arrivare da milizie sciite. Da ieri, infatti, i leader religiosi sciiti, dal Sud dell’Iraq hanno lanciato una chiamata alle armi, che ricorda l’insurrezione generale contro Saddam Hussein, nel 1991. Parate spontanee di milizie irregolari sono avvenute nelle maggiori città del Sud. È dunque possibile che scoppi, nei prossimi giorni, quel conflitto civile e religioso che, finora, solo la presenza degli americani era riuscita a contenere.

Ridateci Saddam? Verrebbe da dirlo, ma solo dimenticando la vera causa di tutto questo conflitto. Che è Saddam. Fu infatti il trentennale regime nazionalista a contrapporre i sunniti (minoritari e privilegiati) agli sciiti (maggioritari, ma repressi) e ai curdi. Saddam coltivò con pazienza ed estrema ferocia la politica del divide et impera. Nel suo lungo regno non vi furono molti periodi di “pace”, come la intendiamo noi, ma tanta, tantissima violenza istituzionalizzata: mezzo milione di morti, ammazzati anche con armi chimiche (in Curdistan), secondo le stime più prudenti. Queste ferite non si rimarginano in fretta. Una volta deposto Saddam, sciiti, curdi e sunniti sono diventate tre fazioni inconciliabili, i primi in cerca di vendetta, i secondi desiderosi di diventare finalmente indipendenti, i terzi timorosi di subire le rappresaglie di entrambe le fazioni nemiche. La dittatura ha distrutto l’Iraq. Prima di ricucirlo occorrerà ancora molto tempo. E non sarà un processo pacifico.


di Stefano Magni