Il caso Bergdahl che imbarazza Obama

giovedì 12 giugno 2014


Sta creando forte imbarazzo all’Amministrazione Obama la storia del sergente Bowe Robert Bergdahl, catturato dai Talebani in Afghanistan nel giugno 2009 e rilasciato il 31 maggio scorso, in seguito ad uno scambio di prigionieri che ha visto la liberazione di cinque capi talebani detenuti a Guantanamo da anni.

È la prima volta che un’amministrazione americana tratta con rapitori o terroristi; non era mai successo prima e diversi soldati statunitensi, che erano stati rapiti in Iraq negli anni scorsi, erano stati poi uccisi dai rapitori.

Il ventottenne dell’Idaho, figlio di un camionista presbiteriano, al momento della cattura, nel giugno del 2009, era in servizio presso un’unità di fanteria operante nella provincia sudorientale di Paktika, al confine col Pakistan, una delle zone più pericolose dell’Afghanistan.

Nella notte del 30 giugno del 2009, si persero le tracce dell’allora soldato Bergdahl (verrà promosso in absentia a caporale e poi a sergente durante il periodo di prigionia). Sono ancora incerte le dinamiche della sua sparizione; secondo quanto egli stesso ha dichiarato, sarebbe stato rapito da guerriglieri talebani al termine di una pattuglia, ma soldati del suo plotone hanno riferito che quella notte non ci sarebbe state invece alcuna attività fuori dalla base.

Secondo un rapporto del Pentagono, citato da alcuni giornali ma non confermato dalle autorità militari, il soldato si sarebbe allontanato spontaneamente dalla base. Alcuni testimoni avrebbero anche riferito, circostanza anch’essa non confermata da fonti ufficiali, che Bergdahl, prima di scomparire, avrebbe lasciato un biglietto nella sua tenda, nel quale scriveva di essere deluso dell’esercito americano, di trovare immotivata la missione in Afghanistan e l’intenzione di voler iniziare una nuova vita. Secondo i suoi commilitoni, il soldato Bergdahl aveva un carattere molto chiuso e solitario e raramente si univa ai suoi colleghi nei momenti fuori dal servizio; aveva imparato la lingua Pashtu, parlata dai Talebani, e letto molti libri sulla storia afgana.

Da Paktika, Bergdahl sarebbe stato portato dai Talebani durante la sua prigionia in basi sicure e impenetrabili in zone di confine in Pakistan. La prima prova dell’esistenza in vita del soldato americano avviene con un video postato dai Talebani il 18 luglio del 2009; il giovane appare piuttosto spaurito e riesce a balbettare poche parole. In un secondo video del dicembre 2009, il sergente sembra in migliori condizioni di salute e usa addirittura parole di gratitudine nei confronti dei suoi rapitori, per il trattamento “umano” al quale è sottoposto. Nello stesso video, Bergdahl pronuncia parole critiche sulla presenza delle truppe statunitensi in Afghanistan che, sostiene, rischiano di fare la stessa fine della guerra in Vietnam.

Nell’aprile del 2010, in un nuovo video il sergente appare stanco con barba e capelli lunghi. Intanto i Talebani recapitano al comando americano in Afghanistan le condizioni per il rilascio del sergente Bergdahl; un milione di dollari in contanti e la liberazione di 21 prigionieri afgani detenuti a Guantanamo. Più tardi la richiesta scende a 5 prigionieri, in cambio del rilascio di Bergdahl: si tratta dei capi dell’esercito talebano che combatté nel 2001 contro gli americani. Le truppe speciali statunitensi cercano il soldato rapito tra le montagne del confine meridionale afgano e si spingono fino oltre il Pakistan. Nelle operazioni, che non portano ad alcun risultato, vengono uccisi diversi soldati americani. Nel gennaio del 2014, i Talebani postano un nuovo video; Bergdahl, molto provato, cita la morte di Nelson Mandela, avvenuta poche settimane prima. È la prova che è ancora in vita e che aspettava la Casa Bianca per chiudere le trattative. Mediatori americani, qatarini ed esponenti del Governo di Karzai stanno negoziando segretamente da mesi il rilascio del prigioniero americano.

Il 31 maggio scorso arriva l’accordo: soldati della Delta Force prendono in carico Bergdahl direttamente dai suoi rapitori a Khost, sul confine col Pakistan. I cinque prigionieri Talebani, merce dello scambio, lasciano contemporaneamente Guantanamo a bordo di un aereo inviato dall’Emiro del Qatar alla volta di Doha. I Talebani liberati sono figure di primissimo livello del regime che ha governato l’Afghanistan fino al 2001; tra di loro l’ex capo dell’esercito, il capo dei servizi segreti e altri personaggi di spicco.

Il Presidente Barack Obama si fa ritrarre sorridente mentre abbraccia i genitori del sergente Bergdahl alla Casa Bianca, al momento dell’annuncio dell’avvenuta liberazione. Sembra un grande successo mediatico. Pochi giorni dopo, però, la bella storia del soldato liberato, quasi eroe di guerra, nel sacrosanto principio americano che nessun soldato viene lasciato dietro le linee del nemico – “no man left behind” – assume un’altra connotazione.

Una “gola profonda” del Pentagono svela che un’inchiesta interna avrebbe accertato che il soldato Bergdahl avrebbe spontaneamente lasciato il campo quella sera di giugno del 2009; gli ispettori militari avrebbero anche trovato una e-mail scritta ai suoi genitori, qualche giorno prima di sparire, nella quale egli scriveva che si vergognava di essere americano e che avrebbe voluto rinunciare alla sua cittadinanza. La Casa Bianca, secondo la fonte anonima, sarebbe stata immediatamente informata dal Pentagono, ma avrebbe intenzionalmente taciuto su queste circostanze e ordinato di proseguire nelle trattative con i Talebani.

Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Martin Dempsey, chiamato in causa, ha smentito tale ricostruzione e ha difeso l’operato della Casa Bianca dicendo che la priorità del governo americano è quella innanzi tutto di salvare i soldati rapiti in combattimento. Fioccano intanto le polemiche dopo che alcuni soldati, compagni di plotone del sergente liberato, lo descrivono come un pavido, arrivando a definirlo come un disertore o peggio ancora traditore. Le famiglie dei soldati caduti nelle operazioni volte a ritrovare Bergdahl scrivono sui giornali lettere di fuoco contro il sergente e la Casa Bianca, colpevole morale della morte dei loro congiunti. Non si dovevano perdere vite di valorosi soldati per un disertore, è il commento ricorrente. Alcuni organi di stampa sostengono che Bergdahl abbia nel frattempo abbracciato la religione islamica con tendenze jihadiste.

In Congresso i membri repubblicani accusano la Casa Bianca di aver violato le leggi federali. L’accordo non doveva essere fatto e comunque, secondo le leggi, il Congresso doveva essere informato in via preliminare. I parlamentari citano inoltre la legge, voluta dallo stesso Obama all’indomani della sua elezione presidenziale, che prevede che ogni trasferimento o liberazione di prigionieri da Guantanamo deve essere comunicata con trenta giorni di anticipo al Congresso da parte dell’Esecutivo.

Uno dei più feroci critici è l’ex candidato presidenziale ed eroe del Vietnam, dove venne a lungo tenuto in prigionia, il senatore John McCain; secondo McCain la trattativa con i terroristi per liberare Bergdahl rischia di creare un pericolosissimo precedente sia per i soldati americani che resteranno in Afghanistan fino al 2016 che per tutti gli americani nel mondo. Gli risponde però il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, secondo il quale non c’è stata trattativa con terroristi ma si è trattato di uno scambio di prigionieri di guerra, perché i cinque liberati erano esponenti del precedente regime talebano, con cui gli Stati uniti erano in guerra e non terroristi. Il Governo statunitense ha ripetuto Hagel non negozia con i terroristi.

La Casa Bianca dal canto suo, non con un certo imbarazzo, ha giustificato l’operazione con le circostanze eccezionali; in gioco, hanno detto i funzionari presidenziali, c’era la vita di un soldato americano catturato da nemici. Gli oppositori di Obama hanno però ricordato che un anno prima della conclusione della vicenda con la liberazione di Bergdahl, l’allora portavoce di Obama, Jay Carney, aveva smentito trattative in corso con i Talebani ed aveva assicurato alla stampa che ogni eventuale operazione per liberare Bergdahl sarebbe stata effettuata solo dopo averne informato il Congresso.

L’amministrazione americana ha anche aggiunto che la decisione di liberare i cinque prigionieri da Guantanamo era necessaria per facilitare il dialogo tra il Governo del presidente Kharzai e i Talibani e sostenere la pacificazione dell’Afghanistan.

Minacce e insulti sui social network sono piovuti addosso al padre di Bergdahl, Bob, che nel tentativo di aprire un dialogo con i Talebani, nel lungo periodo di detenzione di suo figlio, aveva imparato il pashtu, studiato il corano e si era fatto crescere la barba, mostrandosi spesso in appelli televisivi per il rilascio del figlio, anche fuori dagli Sati Uniti. Intanto il sindaco della sonnecchiosa comunità di Hailey, la cittadina dell’Idaho da dove vengono i Bergdahl, ha annullato tutti i festeggiamenti previsti per il rientro in patria di Bowe Robert Bergdahl.


di Paolo Dionisi