Usa, l’esodo che nessuno vede

sabato 31 maggio 2014


Negli Stati Uniti, in 15 anni, è avvenuto un esodo di capitali e persone poco pubblicizzato e ancor meno analizzato, pur essendo di dimensioni immense. Dal 1995 al 2010, infatti, l’equivalente di circa 2000 miliardi di dollari di reddito imponibile si è trasferito dagli stati governati dai progressisti e caratterizzati da alta tassazione agli stati conservatori con tassazione più bassa. Duemila miliardi di dollari, come somma dei redditi individuali, è una cifra enorme, quasi pari all’intero debito pubblico italiano. I nove stati americani privi di una tassa sul reddito individuale hanno guadagnato 146 miliardi di dollari in aumento di reddito, i nove stati con la tassazione sul reddito individuale più alta hanno perso 107 miliardi in termini di riduzione del reddito.

Queste e altre statistiche semi-sconosciute compaiono sul libro “How money walks” (come camminano i soldi) scritto dall’imprenditore e commentatore economico Travis Brown. Stati come il New York, caratterizzati da una tassazione più esosa e da un’alta spesa pubblica, perdono rispetto ad altre realtà, come il vicino New Jersey che (grazie al governatore Chris Christie) sta tagliando tasse e spese. In questi ultimi anni, dunque, assistiamo ad un contro-esodo: cittadini newyorkesi che si trasferiscono ad abitare dai vicini più liberi, in controtendenza rispetto a una storia ormai secolare. E poi c’è il grande trasferimento di persone e capitali dalla costa orientale al Sud e all’Ovest, soprattutto verso il Texas, che è uno degli stati dove le tasse sono più basse e le regole sul lavoro sono più liberali. Le città che si sono spopolate maggiormente negli ultimi anni sono Cleveland, Detroit, Buffalo, Providence e Rochester, tutte governate da sindaci e amministrazioni caratterizzati da un forte interventismo sociale. Quelle che si sono popolate maggiormente sono Raleigh, Austin, Las Vegas, Orlando, Charlotte, Phoenix, Houston, San Antonio e Dallas, tutte governate da giunte più liberali, indipendentemente dal loro partito di appartenenza.

Da questa inedita analisi di Brown possono essere tratte delle lezioni estremamente utili, soprattutto per noi cittadini europei all’indomani del voto. Prima di tutto: la libertà paga. Perché il suo potere di attrazione (di persone, merci e capitali) è imbattibile. Puoi varare tutte le politiche sociali che vuoi, ma i soldi (e i lavoratori) vanno dove possono agire più libere dal peso del fisco e di regolamentazioni capestro imposte dai governi. Quei governi europei che vogliono aumentare le tasse “ai ricchi”, aumentare le garanzie sociali, spendere di più per “promuovere la crescita” stanno già facendo l’errore dei più spopolati stati americani e stanno subendo (senza rendersene conto) la stessa sorte fallimentare.

La seconda e più interessante lezione da trarre è: l’armonizzazione non paga. Perché è solo grazie a sistemi differenti di tassazione e spesa pubblica che gli americani possono scegliersi lo stato migliore in cui vivere e lavorare. Se solo pensiamo a tutte le proposte di “armonizzazione fiscale” che circolano fra i partiti europei, dobbiamo sapere, prima di tutto, cosa ci perdiamo: la possibilità stessa di “votare coi piedi”. Negli Stati Uniti la capacità di competere di uno stato nei confronti dei suoi vicini è più alta, non solo perché i confini sono amministrativi (dunque più aperti) e la liberalizzazione dei servizi è completa, molto più che sotto la proposta direttiva Bolkestein, ma anche perché negli Usa c’è una lingua in comune per tutti.

In Europa non abbiamo questo vantaggio. È difficile per chiunque trasferirsi in Estonia, che attualmente è lo Stato più liberale d’Europa, per il semplice motivo che solo i pochi milioni di estoni e una minoranza di finlandesi capiscono quella difficilissima lingua. Idem dicasi per i Paesi con i più alti tassi di benessere, come la Danimarca e la Finlandia. Oltre alla lingua esiste anche una invisibile barriera culturale. Se per un newyorkese è relativamente facile adattarsi ai ritmi di vita di Houston (a meno che non provenga dalla Manhattan più snob), per un napoletano è molto più difficile adattarsi a Rovaniemi. E viceversa è praticamente impossibile. Da qui si comprende che la competizione deve essere introdotta all’interno dei singoli Stati europei: fra regioni italiane, fra laender tedeschi, così come adesso avviene fra cantoni svizzeri. Più libertà di associazione fra singole regioni di Paesi confinanti (Carinzia col Veneto, Tirolo con l’Alto Adige, ecc…) e più autonomia per ogni regione: solo questo cambiamento porterebbe anche in Europa gli stessi vantaggi della competizione fra stati americani. Ma chi lo propone?


di Stefano Magni