S’incrina l’ostentata sicurezza di Putin

giovedì 8 maggio 2014


Qualcosa sta cambiando nella crisi ucraina. Dopo tre mesi di testa a testa senza compromessi, né passi indietro, il presidente russo Vladimir Putin ha fatto una prima retromarcia. Ha infatti dichiarato, ieri, di auspicare elezioni libere e democratiche in Ucraina, previste per il prossimo 25 maggio. E ha chiesto ai separatisti pro-russi di “rinviare” il referendum per l’annessione, che era in agenda per il prossimo 11 maggio. Alla vigilia di uno scontro molto sanguinoso, che ormai pareva pressoché inevitabile e di un nuovo round di sanzioni di Usa e Ue, la rigidità del Cremlino si è incrinata.

Che si fosse aperta qualche crepa si poteva intuire da un evento strano, avvenuto il giorno prima, nella serata del 6 maggio. Un organismo del Cremlino, il Consiglio per la Società Civile e i Diritti Umani, legato alla presidenza della Federazione Russa, ha pubblicato sul suo sito istituzionale i dati del referendum in Crimea. Smentendo clamorosamente quanto dichiarato dal presidente Putin e dalle agenzie stampa russe. Risultava, infatti, che in Crimea non avesse affatto votato l’80% della popolazione, ma una percentuale stimata fra il 30 e il 50%. Considerando che il quorum era proprio del 50%+1 dei voti, il referendum in Crimea difficilmente si può considerare valido. Fra l’altro, il risultato era abbastanza magro: dal 50 al 60% dei votanti avrebbe optato per l’annessione della regione sul Mar Nero alla Federazione Russa. Dunque, la metà della metà dei cittadini della Crimea ha scelto la Russia, dal 15% (secondo la stima più conservativa) al 30% (secondo quella più generosa), ben lontano dal quel 97% ostentato da Putin e ripreso da tutta la stampa russa e occidentale. Solo Sebastopoli, città abitata dai marinai e soldati delle basi russe e dai loro familiari, avrebbe dato risultati incoraggianti, anche se non “bulgari” come risultava dalle prime dichiarazioni: dal 50 all’80% avrebbe scelto l’unificazione con Mosca. Che un organo del Cremlino contraddica il suo presidente è un caso raro e un fatto grave, soprattutto considerando l’ossessiva attenzione della censura russa sui media di Stato e la pressione esercitata su quelli indipendenti.

Il timore del governo provvisorio ucraino era quello di veder ripetere lo stesso copione nelle regioni orientali attualmente sotto il controllo della Russia: un referendum improvvisato, votato da una minoranza di cittadini e dichiarato vinto con percentuali bulgare a schede non ancora contate. Una foglia di fico per nascondere un’occupazione militare, insomma. Ma la pubblicazione dei dati sulla Crimea rivela, per lo meno, che Mosca non sia neppure in grado di mantenere il segreto sui suoi trucchi. E la comunità internazionale, che già contestava il voto in Crimea, ora è perfettamente avvertita su quali metodi stia usando.

Sono state le pressioni internazionali a indurre Putin a fare un passo indietro? Difficile anche solo pensarlo. L’ultimo incontro al vertice è stato con Didier Burkhalter, presidente di turno dell’Osce (i cui ispettori, presi in ostaggio, sono stati rilasciati dalle milizie russe la scorsa settimana). Putin e Burkhalter si sono detti, sostanzialmente, nulla di nuovo rispetto alla road map stabilita a Ginevra. All’indomani della strage di Odessa, del 2 maggio scorso, i ministri degli Esteri russo e statunitensi si sono contattati, ma anche in quel caso non avevano raggiunto alcun accordo da svolta. Sono le sanzioni ad aver cambiato l’atteggiamento di Mosca? Non sembra proprio. Considerando la reazione positiva dei mercati alla loro imposizione, erano evidentemente molto deboli e come tali sono state considerate dalla leadership russa. L’esercito ucraino, inoltre, è troppo malmesso per costituire un serio deterrente e indurre la Russia a cambiare rotta.

In attesa di conoscere i retroscena, noti solo nelle segrete stanze del Cremlino, l’ipotesi più probabile è, appunto, quella dell’incrinatura interna alla leadership russa. Man mano che procede con la sua solitaria campagna di auto-affermazione, la Russia si va a ficcare in un tunnel di isolamento. Lo dimostrano i capitali in rapida fuga per decine di miliardi di euro, l’ostilità dei Paesi occidentali tradizionalmente più vicini a Mosca (come la Germania), l’improvviso recupero di prestigio di un’alleanza vecchia e depressa come la Nato e il rafforzamento della sua frontiera orientale, lo spavento generato nei Paesi ex sovietici tradizionalmente alleati alla Federazione Russa, come la Bielorussia e il Kazakhstan. Se dovesse procedere sulla strada della prova di forza, Putin si troverebbe a dover comandare su un Paese povero, isolato e circondato da nazioni ostili. Forse qualcuno se ne è accorto, anche a Mosca. E ha invitato il presidente a darsi una calmata. Che sia serio o meno questo appello alla ragione, lo vedremo solo nei prossimi giorni. Il dato certo è che, per la prima volta, Putin apre uno spiraglio al compromesso. Mai perdere questa occasione.


di Stefano Magni