La Libia nel caos e nell’anarchia

sabato 3 maggio 2014


Una cosa è certa: la Libia è il tallone d’Achille del quadrante geopolitico mediterraneo. Al contrario di tutte le fandonie raccontate dal nostro Governo, lì la situazione è drammatica. Il Paese nord-africano è in preda all’anarchia. Le violenze si susseguono a ritmo giornaliero e puntano a destabilizzare definitivamente il già labile quadro politico che offriva una parvenza di legittimità all’azione di governo. Da fonti giornalistiche si è appreso che, il 29 aprile scorso, un gruppo di armati ha fatto irruzione nella sede del Congresso Generale Nazionale a Tripoli. L’attacco ha provocato il ferimento di alcuni deputati e la fuga precipitosa dei superstiti. Il Congresso, cioè il Parlamento libico, era riunito per votare l’elezione del nuovo presidente del Consiglio dei ministri dopo le dimissioni del premier uscente Al-Thani. Quest’ultimo, dopo pochi giorni di governo svolti in sostituzione del fuggitivo ex-premier Zeidan, ha rinunciato all’incarico perché fatto oggetto, con la propria famiglia, di un attentato terroristico.

Con la sortita dei miliziani la Libia non ha più un governo. Le istituzioni centrali non hanno, se mai l’avessero avuta prima, alcuna presa sulle iniziative criminali dei vari clan e delle bande armate che operano indisturbate nelle diverse aree del Paese. Al momento, il territorio è un’immensa base a cielo aperto del terrorismo islamico di marca jihadista e della criminalità organizzata. I nuovi padroni potranno a questo punto mettere a sistema le loro attività illecite, a partire dal contrabbando di greggio, alla vendita di armi, al traffico di droga con i referenti della criminalità organizzata europea. Soprattutto potranno implementare l’asset che sta offrendo grandi profitti agli organizzatori: la tratta di essere umani. Il fiorente mercato è stato favorito da una modifica della legislazione italiana in senso più favorevole agli interessi dei mercanti di nuova schiavitù.

Non è un caso se la peggiore feccia di pendagli da forca in circolazione esprima sincera gratitudine al nostro Governo, per l’abrogazione del reato d’immigrazione clandestina. Portare dall’altra parte del mare una massa di disgraziati è diventata una pacchia da quando a dettare la linea sulle politiche migratorie all’insulso ministro dell’Interno ci pensa la Boldrini, presidente “monopartisan” della Camera dei deputati. Quest’anno si prevede il picco dell’esportazione di carne umana dalla Libia. Le stime indicano in 800mila il numero di disperati che potrebbe rischiare la morte pur di passare la frontiera italiana. Si tratta di una stima. Temiamo che sia per difetto, visto che la massa di profughi che dall’Africa sub-sahariana e dalla Siria in fiamme cerca di riparare in Europa - via Italia – cresce esponenzialmente ogni giorno che passa.

Non tutti i Paesi confinanti con la Libia hanno lo stesso approccio autoconsolatorio che ha l’Italia. L’Algeria, ad esempio, negli ultimi tempi ha avviato le procedure per l’acquisto di droni Uav, di classe Male Cai Hong 4, prodotti dalla China Academy of Aerospace Aerodynamics. I velivoli, ancora in fase di collaudo, armati ciascuno con due missili a guida laser AR-1 e due bombe teleguidate FT-5, sono stati individuati come strumenti della tecnologia avanzata da impiegare per il pattugliamento costante delle zone di confine. Se le bande criminali fanno affari lungo la costa, l’islamismo jihadista si fortifica in Cirenaica. La zona est della Libia è divenuta uno stato islamico a tutti gli effetti. L’ultimo episodio che certifica l’annichilimento di ogni speranza democratica riguarda la decisione del rettorato dell’università pubblica di Derna di sottomettersi alla volontà delle locali milizie armate, le quali hanno preteso la divisione del campus in due distinte zone: una riservata ai maschi e l’altra alle donne. Queste ultime sono state obbligate a vestire l’abaya, la palandrana che copre integralmente il corpo femminile, e ad indossare l’hijab sul capo. Nei piani dei terroristi di Ansar Al Sharia, proprio la città di Derna è destinata a divenire la sede del nuovo califfato islamico. Il governo di Tripoli, nonostante abbia annunciato a più riprese l’invio di truppe per contrastare l’insurrezione jihadista, nei fatti non ha mosso un bel nulla lasciando che la situazione si incancrenisse col trascorrere del tempo.

Chi ha da perdere in questo contesto? Principalmente l’Italia, la quale continua a essere esposta verso la Libia sia per gli investimenti fatti sul piano energetico e commerciale, sia per le evidenti ragioni di sicurezza e di ordine pubblico. L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni che è uno dei plenipotenziari della politica estera del nostro Paese, si era recato in visita al neo premier Al Thani, dopo la fuga di Zeidan, per ribadire alle nuove autorità quanto fosse strategica l’intesa tra la Libia e la nostra compagnia petrolifera. La presenza di Scaroni a Tripoli si data allo scorso 24 marzo. Ora, alla luce della caduta del Governo appena insediato tocca rifare tutto daccapo sperando che, a breve, vi sia un interlocutore legittimo con il quale riprendere le trattative. Il guaio è che l’esperto Scaroni sia in uscita da Eni per cui si corre il rischio che la non sufficiente esperienza sullo specifico dossier libico del successore possa costituire un handicap per l’azienda in un momento particolarmente delicato dello scenario geopolitico complessivo.

Ciò che più deve preoccupare è la pericolosità, per l’Italia, della presenza in un’area contigua ai propri confini di un elevato numero di terroristi islamici pronti a esportare i loro progetti criminali in Europa, sfruttando la porta d’ingresso lasciata colpevolmente aperta dal nostro Paese. Per ovviare a questo stato di cose, è indispensabile che i governi che hanno provocato la sciagurata avventura della “primavera araba” si facciano carico della realtà e intervengano tempestivamente con le proprie forze di sicurezza per impedire che il virus libico possa infettare l’intera regione nordafricana.

Una buona volta, si svegli la nostra inesperta ministra degli Esteri e ponga al tavolo dei “Grandi” i concreti problemi che si originano dalla crisi dell’odierna Libia, a cominciare dal rischio di un’emergenza sanitaria conseguente allo spostamento di un volume eccessivo di esseri umani da una parte all’altra del pianeta. In primo luogo, urge la messa in sicurezza delle frontiere di quel Paese, compresa la costiera del Nord. In secondo luogo, è necessario intervenire in loco per fermare il flusso apocalittico dei migranti verso l’Italia. In terzo luogo, è indispensabile presidiare militarmente i principali pozzi petroliferi, onde evitare che la ricchezza nazionale libica finisca interamente nelle mani dei jihadisti e delle milizie armate. In quarto luogo, se davvero si crede possibile ricostruire un percorso di transizione di quel Paese verso un modello istituzionale di tipo democratico, si disponga allora che siano le forze di una compagine multilaterale, magari capitanate da un contigente militare italiano, a garantire l’ordine pubblico e la sicurezza della nuova classe dirigente. Infine, di concerto con il ministero della Difesa, si trasferisca l’operazione “Mare Nostrum” a ridosso della linea di delimitazione delle acque territoriali libiche, di modo che i barconi intercettati siano ricondotti, in base agli accordi da rinegoziare con la nuova leadership libica, nei porti di partenza. Il dispiegamento di un contingente internazionale, inoltre, potrebbe offrire protezione agli addetti Onu dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, per effettuare sul posto gli accertamenti in ordine alle richieste di asilo politico presentate dai migranti in fuga.

Gentile ministra, la invitiamo caldamente a dedicarsi a questa gravissima emergenza piuttosto che a perdersi in chiacchiere da salotto invitando, stando alla sua agenda d’incontri, per il solito tè e pasticcini, improbabili “personalità eminenti” con le quali discutere di problemi di non proliferazione nucleare, con l’Italia che il nucleare neanche ce l’ha.


di Cristofaro Sola