Scontro di civiltà, Huntington ha ragione

sabato 22 marzo 2014


In tempo di gravi crisi internazionali è sempre bene rileggere (o leggere per la prima volta, per chi non lo ha fatto) un classico del politicamente scorretto: “Lo scontro di civiltà” del politologo Samuel Huntington (1927- 2008). “Lo scontro di civiltà” è un saggio di Huntington nato da un suo articolo del 1993 pubblicato su Foreign Affairs con un punto di domanda alla fine del titolo (“Scontro di civiltà?”), poi (nel 1996) esteso a libro e senza il punto di domanda alla fine del titolo. Ad indicare che lo scontro di civiltà non era più una possibilità, ma un dato di fatto. Il 1993 fu un anno cruciale per tutti: prima manifestazione di Al Qaeda (primo attentato alle Torri Gemelle), guerra in Bosnia-Erzegovina fra croati cattolici, bosniaci musulmani e serbi ortodossi, guerra civile nella Georgia post-sovietica, guerra civile in Algeria, fallito colpo di Stato in Russia dei post-comunisti (quelli che ispirano l’attuale potere di Vladimir Putin).

Insomma, a soli due anni dal collasso dell’Urss pareva già sepolta l’ottimistica previsione di un mondo tutto liberale, contenuta nell’altro celeberrimo saggio di Francis Fukuyama, “La fine della storia”. Nel 1996, le dinamiche suddette si erano già incancrenite e Huntington poteva, con maggior sicurezza, disegnare la mappa del mondo di domani, non più diviso in blocchi ideologici e neppure tutto liberale, ma diviso in blocchi fondati su civiltà (o culture) ostili le une con le altre.

Esattamente come Fukuyama, Huntington, essendo un gran semplificatore, è stato massacrato di polemiche. A parte coloro che non lo hanno letto e gli danno del razzista, o quelli che sognano un mondo pacifico e gli danno del guerrafondaio, le critiche più fondate all’opera di Huntington sono di ordine pratico: le “civiltà” non sono ben definibili e non esistono veri e propri “blocchi” di civiltà, perché “mondo occidentale”, “mondo ortodosso” e “mondo islamico”, giusto per dirne tre, sono molto divisi al loro interno. Eppure la trappola di civiltà descritta da Huntington scatta ogni qualvolta si combatte un conflitto, politico o militare, in quelle che il politologo definiva “linee di faglia”, i territori di confine fra una civiltà e l’altra. Nel momento in cui si scontrano due Stati o due partiti nello stesso Stato rappresentativi di civiltà opposte, scatta in tutti i Paesi il senso di appartenenza alla propria civiltà e la volontà di intervenire nello scontro. In questi primi 14 anni di XXI Secolo, la teoria di Huntington ha avuto, purtroppo, più conferme che smentite. Le conferme sono l’11 settembre 2001 (tutto il mondo occidentale, attaccato da un movimento islamico, si è compattato), la Seconda Intifada e la Guerra in Iraq (tutto il mondo occidentale, confrontandosi con Stati occidentali, si è compattato), la guerra in Cecenia (tutto il mondo musulmano ha solidarizzato con i ceceni contro la Russia), la Primavera Araba (vittoria di partiti islamici e anti-occidentali liberamente eletti dai popoli locali), le proteste arabe contro vere o presunte “offese” occidentali (la lezione a Ratisbona di Papa Benedetto XVI, le vignette su Maometto e il video amatoriale che sbeffeggia il Profeta), ben tre conflitti di faglia fra mondo occidentale e mondo ortodosso (Rivoluzioni Colorate 2004, Guerra in Georgia 2008, l’attuale crisi in Ucraina) in cui la Russia e i suoi alleati euroasiatici si considerano come un blocco contrapposto all’Occidente.

Le smentite alla teoria di Huntington sono le guerre civili e i conflitti interni alle civiltà. La Siria ne è un esempio classico, così come prima ne era un esempio la guerra civile algerina, sempre fra musulmani. La corsa agli armamenti fra Arabia Saudita e Iran è un altro esempio ancora. Ma sono eccezioni che confermano la regola, si può dire. Perché la tesi di Huntington è confermata in ogni cozzo fra civiltà. Se il mondo islamico si sente offeso dall’Occidente, magari anche solo da una vignetta, o da un video amatoriale, non ci sono più né sciiti, né sunniti, né dittatori, né oppositori: sono tutti in piazza, all’unisono a urlare contro un unico nemico, che è l’Occidente. Una tale unità di vedute noi occidentali l’abbiamo vissuta, appunto, solo con l’11 settembre, con quel “siamo tutti americani” che campeggiava dalle prime pagine di tanti quotidiani. Ora tocca alla Russia provare il suo momento di orgoglio anti-occidentale. Mentre in Occidente, i governi sembrano essere tutti compatti nel sostegno ai filo-occidentali ucraini, anche se l’opinione pubblica degli Stati più lontani dalla Russia (Italia per prima) è divisa, scettica e silente, perché non si sente direttamente coinvolta nello scontro.

Huntington morì nel 2008, fece a tempo a vedere la Guerra in Georgia. Fosse vissuto oggi avrebbe visto la sua teoria vendicata ancora una volta dalla crisi in Ucraina e prima ancora dall’esito anti-occidentale delle Primavere Arabe. Nella vicenda ucraina avrebbe visto che persino i partiti liberali e socialisti russi, quelli che sono sempre stati all’opposizione, stanno ora dalla parte di Putin, perché si sentono più russi che democratici. E avrebbe visto che, una volta liberi dei loro dittatori militari, i popoli di Tunisia ed Egitto hanno liberamente eletto partiti che esprimono l’orgoglio e l’identità dell’Islam più radicale. Quel che il politologo temeva era una guerra terribile, molto peggiore della Seconda Guerra Mondiale. Se questa, infatti, era una guerra fra ideologie, uno scontro di civiltà sarebbe uno conflitto fra identità. Nel primo caso, le persone si ammazzavano perché “credevano” in ideali totalitari o democratici. Nel caso di una guerra di civiltà, invece, si uccide perché “si è” occidentali, islamici, russi, o altro. Un popolo si può disilludere più facilmente del proprio regime al potere e della sua ideologia. Quando entra in ballo l’identità culturale più profonda, invece, si combatte per vincere o morire, diventa una questione di sopravvivenza.

Quel che Huntington suggeriva, per evitare una guerra totale di questo genere, era una spartizione del mondo su linee di civiltà e la formalizzazione (con nuove alleanze) dei nuovi blocchi. Una sorta di “nuova Yalta”, insomma, non più generatrice di sfere di influenza ideologiche, ma culturali. Nella speranza, ovviamente, che tutti, prima o poi, diventino occidentali di loro spontanea volontà.


di Stefano Magni