martedì 18 marzo 2014
La crisi ucraina ha fatto un’altra vittima illustre: la logica. L’escalation dei toni, sempre più accesi e minacciosi, rischia di provocare un danno dal quale la comunità occidentale farà fatica a riprendersi. La tesi americana di rispondere agli esiti referendari in Crimea con l’isolamento politico ed economico della Russia sarebbe un’idea semplicemente demenziale se non celasse altri obiettivi reconditi. Nella partita per Kiev c’è molto di non-detto, e non solo da parte russa. Sarebbe, in proposito, interessante comprendere quale sia il vero gioco che l’amministrazione Obama sta tentando di imporre, profittando dell’implosione di uno Stato di frontiera qual è l’Ucraina.
In realtà, una vaga idea sull’argomento l’abbiamo maturata. Pensiamo, infatti, che l’obiettivo prioritario degli Stati Uniti sia di mantenere il confronto con la Russia negli stessi termini conflittuali e ideologici di sempre, come se la fine del comunismo e la caduta del Muro non avessero offerto la concreta opportunità di radere al suolo le incomprensioni e le rivalità sedimentate, dalla fine della Seconda guerra mondiale, in anni di contrapposizione frontale dei due blocchi. Insomma, l’ostilità statunitense si riverbera su ogni tentativo che ridefinisca i confini politici del Vecchio Continente, evocando un’ipotesi di Europa che vada dall’Atlantico agli Urali. L’idea non è nuova, ne parlò per la prima volta nel 1959 Charles De Gaulle in un discorso a Strasburgo passato alla Storia: “Sì, è l’Europa, a partire dall’Atlantico fino agli Urali, è tutta l’Europa, che deciderà il destino del mondo”. Vi era ragionevole lungimiranza in De Gaulle e quel buon senso che, pare, si sia un po’ smarrito negli ultimi tempi.
Annichilire, invece, qualsiasi tentativo di costruire un’ Europa che superi i limiti del tradizionale occidentalismo condurrebbe, gioco-forza, le sue classe dirigenti a non disconoscere la centralità del’Alleanza Atlantica quale fulcro esclusivo per la tenuta della sicurezza dell’area. Questo è il pensiero della Casa Bianca. La sensazione è che si faccia fatica a concepire un rapporto con l’interlocutore russo fondato su un approccio diverso da quello conflittuale. Magari più inclusivo.
Anche la vicenda di questi anni dell’allargamento a Est dell’Ue è stata vissuta come una continua sfida volta a sottrarre terreno al “nemico”. Tuttavia questa logica, nell’odierno tempo storico, mostra la corda. Non è più adeguata a interpretare i segni di un mondo in rapido cambiamento. In una realtà globale è del tutto illusorio pensare che l’attuale perimetro comunitario possa garantire all’Unione europea la dimensione di potenza economica e strategica. Ragioni collegate alle superfici territoriali, alla demografia complessiva degli Stati membri, alla capacità produttiva del mercato interno e all’inadeguatezza nel possesso di materie prime, contrastano con le sue ambizioni di leadership globale. La condizione di predominio poteva esser vera fino alla prima metà dello scorso secolo, quando ancora una buona parte del globo era occupato da terre conosciute e sottomesse, ma incognite dal punto di vista delle potenzialità espansive.
Oggi sono saliti alla ribalta nuovi attori che, per dimensioni e spinta produttiva, sono dei veri e propri giganti. Cina, India, Brasile, ad esempio, sono potenze globali ben più consistenti delle antiche nazioni coloniali che, per diritto di blasone, siedono ancora con voce propria nei massimi consessi internazionali. Ora, in un mondo che tende a dividersi per grandi aree d’influenza è pensabile che qui da noi, in Europa, si ragioni ancora avendo sul tavolo le vecchie carte geografiche delle imprese napoleoniche?
Anche la politica di allargamento pensata dalla Germania finisce con l’essere la brutta copia della strategia del “Lebensraum”, lo spazio vitale di hitleriana memoria, con la non piccola differenza che se, negli anni Quaranta dello scorso secolo, la conquista di territori come l’Ucraina poteva apparire la logica conseguenza di una politica di accaparramento di aree fertili e ricche di materie prime di origine minerale, oggi lo stesso territorio, per le dimensioni dell’economia globale, ha uguale valenza strategica del cortile di casa.
Alla fine degli anni Duemila, il presidente russo Dmitrij Medvedev aveva lanciato l’idea di un patto che portasse l’Occidente tutto a estendersi da “Vancouver a Vladivostok”. Un accordo articolato avrebbe dovuto garantire la sicurezza dell’intera area, la quale sarebbe divenuta il primo player del sistema globale. La desovietizzazione, iniziata da Gorbačëv e proseguita da Yeltsin e Putin, si sarebbe dovuta accompagnare al processo di graduale integrazione tra i due ex blocchi dei tempi della “Guerra fredda”. La verità è che questa ipotesi non è mai piaciuta al player americano, che l’ha boicottata con ogni mezzo. Nei momenti in cui Medvedev proponeva la stipula del trattato di cooperazione in vista della costruzione di un sistema continentale inclusivo, Washington propugnava l’estensione della Nato ad Est con la partecipazione della Georgia e dell’Ucraina al programma di pre-adesione “Membership Action Plan” e l’installazione di uno scudo spaziale di protezione antimissilistica in Polonia e nella Repubblica Ceca, da puntare in direzione Est.
Era evidente che con questo tipo di reazioni il progetto di fondere in unico grande sistema l’Est e l’Ovest sarebbe diventato carta straccia. Eppure episodi di intelligenza diplomatica vi erano stati. I passi più significativi li aveva compiuti proprio l’Italia del Governo Berlusconi. Nel 2004, la Marina Militare italiana partecipò all’esercitazione navale bilaterale con la Marina Russa, a largo della costa ionica. L’operazione, denominata “Ioniex 2004”, aveva interessato unità navali italiane di base a Taranto e navi russe appartenenti alla Flotta del Mar Nero. Scopo ufficiale dell’esercitazione era di accrescere il grado di interoperabilità tra le due Marine in relazione a interventi congiunti d’interdizione per la prevenzione delle attività illegali in mare e per la protezione delle rotte mercantili. Ma la finalità politica era di gran lunga più importante. Essa sposava in pieno la visione berlusconiana dell’inderogabilità di un processo d’integrazione della forza russa nel contesto occidentale. Era lo “spirito di Pratica di Mare” che iniziava a dare i suoi effetti. L’esercitazione navale divenne la manifestazione visibile della compatibilità tra due mondi giunti, per sentieri diversi, a un grado tale di maturazione da rendere possibile la mutua cooperazione e l’integrazione piena delle politiche economiche e di sicurezza.
La visione di Berlusconi dei primi del millennio è chiara e lungirante. Egli stesso la ribadisce nel corso di un incontro con i lavoratori italiani residenti a Mosca, a latere del vertice Italo-Russo del 2002: “Credo che l’Unione Europea si debba aprire alla Russia poiché con Lei l’Europa diventerebbe più forte politicamente, economicamente ed anche militarmente”. Per inciso, ci chiediamo se non vi sia qualche nesso causale tra queste parole e le attuali ambasce in cui versa l’ex premier italiano. Un po’ come capitò a Craxi per la storia di Sigonella.
L’odierno clima internazionale restituisce un’idea di Europa e di Occidente che, francamente, speravamo fosse stata archiviata. Ma così non pare. Poteva essere logico pensare che solo più Russia in Europa avrebbe impedito l’insorgere di situazioni di crisi come quella che si sta vivendo in queste ore. Invece i governi dell’Occidente non mostrano interesse per il superamento di contrapposizioni antiche e obsolete. In questo scenario sarebbe salutare che la nostra ministra degli Esteri, magari turandosi il naso per non sentire l’odore dell’odiato Cavaliere, facesse uno sforzo e rispolverasse i documenti che prepararono lo storico incontro di Pratica di Mare. Bisognerebbe spiegare a mister Obama che di un partner come lui, così miope nella politica delle alleanze, così datato nell’analisi di contesto e così “agée” nell’individuazione delle contromisure strategiche, l’Europa di oggi, e quella di domani, proprio non saprebbe che farsene.
Alla Merkel e alla sua “compagnia del Nord” andrebbe detto una buona volta che l’Ue germanizzata, che parla una sola lingua, quella tedesca, non si può fare. Non sono riusciti in passato a prendersi il mondo, e non ci riusciranno in futuro. Si mettessero tutti l’anima in pace e decidessero di fare l’unica cosa giusta: evocare lo spirito di De Gaulle. E di Berlusconi.
di Cristofaro Sola